mercoledì 19 agosto 2009

Conta le stelle, se puoi

Cronaca di una sera d'agosto sulla riviera ligure: c'è la presentazione dell'ultimo libro di Elena Loewenthal, "Conta le stelle, se puoi", edito da Einaudi. Io e la mia amica patita di letteratura ci presentiamo puntuali ma senza premura, convinte che "tanto, con questo caldo, chi vuoi che si rintani in una biblioteca..." e invece la sala è affollata. Presenta la serata un insegnante di mezza età, organizzatore del concorso letterario locale: anche l'autrice è puntualissima, con l'eleganza serena di una tipica "madamin" in ferie, figura molto meglio dal vivo che nei sorrisi tirati delle foto sui vari giornali cui collabora.
Dalle prime battute dell'intervista, quasi ci viene il sospetto di essere incappate nell'ennesimo volumetto di fanta-storia dai toni spiritati: come sarebbe andata a finire se Mussolini fosse morto dopo appena due anni di regime (l'autrice inizialmente si "impapera" e scambia il nome con quello di Hitler, ma chi al suo posto non sarebbe colpito da simili lapsus?), ma il racconto parte molto prima ed è la storia di una famiglia ebraica piemontese, che inizia a fine Ottocento con il giovane Moise che da Fossano si sposta a Torino in cerca di fortuna e prosegue con tutti i suoi figli e nipoti fino ad oggi, raccontando il Novecento che buona parte dell'Italia avrebbe voluto, tirando in campo l'America, il sionismo e diversi fatti della storia di ieri, ma senza insistenza nè retorica, come semplice sfondo alle vicende dei personaggi. Un'Italia dove tutto sommato si vive bene, che diventa repubblica nel '38 senza colpo ferire, una città in cui l'editoria per bambini permette ad una delle figlie di Moise, infelice per non essere sposata, di riconciliarsi con la vita.
Elena Loewenthal racconta la storia quasi per intero, e traspare la commozione per certi episodi liberamente ispirati alla vita di alcuni suoi familiari, ma anche il suo quotidiano impegno di docente a Milano nel modo in cui spiega qualche termine in ebraico o in piemontese stretto buttato qua e là nel testo: mi ricorda tanto la giovane insegnante di inglese, gentile e sempre sorridente, che aveva accompagnato all'esame di maturità la classe più difficile di tutto il liceo. Ma all'intervistatore che le chiede come le sia venuta l'idea di modificare la storia in quel modo, risponde che non è stata una fuga dalla realtà nè il mero resoconto delle aspirazioni troncate dei vari suoi parenti che non uscirono vivi da quegli anni (a rigor di logica, dice lei, sopravvissuti lo siamo tutti al di là del cognome che portiamo), ma che piuttosto vuole essere un modo per confermare la sua convinzione che esista un destino buono per cui ognuno è disegnato: che si può nascere per diventare un capostipite, per viaggiare, per scrivere la propria rassegnazione o per fare il ribelle, ma mai per finire in fumo.
Il titolo è quello di un'antica promessa, quella che l'Eterno fece ad Abramo nella notte dei tempi: "Guarda il cielo e conta le stelle, se puoi: tale sarà la tua discendenza...", e uscendo dalla sala non si può non pensare a come nel frattempo l'uomo sia diventato stupido: non malvagio o immorale ma completamente scemo, a temere come un disastro quella che fu la seconda chance data all'uomo, che già si era giocato l'Eden. Oggi come allora, è lo stesso avversario strisciante che insinua nelle menti la paura e il rifiuto della discendenza, che fa sputare ad insospettabili signore una valanga di insulti e maledizioni contro chi osa volerne una numerosa, che spinge centinaia di ragazze ad assumere una forma e un vestiario androgini per nascondere il proprio genere come fosse una malattia. Quegli stessi che applaudivano la scrittrice per la sua storia romanzesca, con ogni probabilità prenderebbero a pesci in faccia un vicino di casa come Moise Levi, con i suoi due matrimoni e sei figli. D'altro canto, erano tutti in età avanzata: gente del secolo scorso.

sabato 1 agosto 2009

Al santo dei casi impossibili

San Giuda, Apostolo glorioso, fedele servo e amico di Gesù! Il nome del traditore è causa che molti ti dimentichino, ma la Chiesa ti onora ed invoca universalmente come patrono dei casi disperati, degli affari senza rimedio. Prega per me, che sono tanto difettoso; fa' uso, te ne scongiuro, di quel particolare privilegio a te accordato di portare visibile e pronto aiuto dove l'aiuto è quasi disperato. Vieni in mio soccorso in questa grande necessità così che io possa ricevere la consolazione e la protezione del cielo in tutte le mie strettezze, tribolazioni e sofferenze, particolarmente ... (qui si faccia la propria domanda), e possa benedire Iddio con te e tutti gli eletti per tutta l'eternità.
Io ti prometto, o beato S. Giuda, di essere ognora riconoscente di questo grande favore, e non cesserò mai di onorarti come mio speciale e potente patrono e di fare quanto sarà in mio potere per incoraggiare la devozione verso di te.
Amen.

S. Giuda prega per noi e per tutti quelli che invocano il tuo aiuto.
S. Giuda, soccorso di chi è privo di speranza, aiutatemi nella mia afflizione!
Prega per noi, affinché ci sia dato di placare la Divina giustizia, e ottenere una benigna sentenza.
Prega per noi, affinché ci sia dato di essere ammessi fra la compagnia dei beati, a godere eternamente alla presenza di Dio. Amen.
Beato Apostolo, noi t'invochiamo con confidenza! (tre volte).
S. Giuda, soccorso di chi è privo di speranza, aiutami nella mia angustia! (due volte).
Prega per noi, affinché prima della morte possiamo espiare tutti i nostri peccati con un sincero pentimento e col ricevere degnamente i santi sacramenti.

Oremus (Preghiamo)

Apostolo glorioso, martire e congiunto di Gesù, S. Giuda Taddeo, che spargesti la vera fede tra le più barbare e distanti nazioni; che guadagnasti all'obbedienza di Gesù Cristo molte tribù e popoli col potere della tua santa parola, concedimi, te ne supplico, che da questo giorno io abbia a rinunciare ad ogni abitudine peccaminosa, che sia preservato da tutti i cattivi pensieri, e possa sempre ottenere la tua protezione, particolarmente in ogni pericolo e difficoltà, e che possa giungere salvo alla patria celeste, per adorare con te la santissima Trinità, il Padre, il Figliolo e lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Se non sapete più a che santo votarvi...

San Giuda non va confuso con l'omonimo Apostolo traditore, Giuda Iscariota, il " figlio della perdizione ". Quello di oggi è Giuda fratello di Giacomo, detto Taddeo, cioè " dal petto largo ", che vuol dire poi " magnanimo ".
Il nome di Giuda, prima che l'infelice traditore lo rendesse odioso, era uno dei più belli nella storia ebrea. Era stato portato da uno dei figli di Giacobbe, o Israele, e a Giuda si intitolò una delle dodici Tribù, quella dalla quale sarebbe fiorito, in Betlemme, terra di Giuda, il virgulto del Messia.
Giuda Maccabeo, eroe della rivolta giudaica contro Antioco IV, e Giuda detto il Santo, maestro per eccellenza, avevano reso onore a quel nome, come gli rese onore l'Apostolo San Giuda, detto Taddeo, che possiamo immaginare alla mensa dei Redentore, proprio accanto al suo omonimo Giuda Iscariota. Egli domanda a Gesù: " Signore, che cosa è avvenuto, che tu debba manifestarti a noi e non al mondo? ". E Gesù gli risponde: " Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio l'amerà e verremo a lui, e faremo una cosa sola ".
E’ la lezione dell'amore mistico, che Giuda Taddeo provoca con la sua domanda. L'amore di Dio unisce, mentre l'amore di se stessi divide.
Per questo, San Giuda scrisse una breve lettera, nella quale rimprovera i fomentatori di discordie, che chiama " nuvole senza acqua, portate qua e là dai venti; alberi d'autunno, senza frutto, onde furiose del mare, che spumano le proprie turpitudini. astri erranti, ai quali sono serbate in eterno le tenebre più profonde ".
" Costoro - egli dice - sono mormoratori queruli che vivono secondo i loro appetiti, e la loro bocca parla di cose superbe, e se lodano qualcuno, lo fanno per fini interessati ".
La breve lettera di Giuda, che fu giudicata " piena della forza e della grazia dei cielo ", ci fa intravedere la figura di San Giuda come maestro fermo e sapiente, che esercitò con zelo e con amore quella missione affidata da Gesù ai suoi Apostoli, prima di lasciare la terra per il cielo.
Infatti, dopo l'Ascensione, anche Giuda Taddeo andò a portare nel mondo la Buona Novella. Secondo qualcuno, egli avrebbe evangelizzato la Mesopotamia; secondo altri la Libia. Si crede che morisse anch'egli Martire, e il suo corpo sarebbe stato sepolto in Persia.

San Giuda Taddeo, l’apostolo della Sindone

Un panno, il Mandylion (fazzoletto), sul quale era impressa l’immagine del volto di Gesù. Un viaggio dal percorso incerto. Copie riprodotte su monete e su icone. Una storia che si intreccia con quella della Sindone.Documenti che indicano nell’apostolo S. Giuda Taddeo colui che portò ad Edessa (l’attuale Urfa, in Turchia) l’immagine che conserva «la fisionomia della forma umana di Gesù». Testimonianze che permettono di identificare il Mandylion proprio con il telo custodito nel duomo di Torino. Emanuela Marinelli, di professione insegnante, sindonologa dal 1977 con anni di corsi formativi, di libri e di studi accurati sulle spalle, ripercorre questo viaggio e questa storia, accompagnandola con la proiezione di diapositive.Siamo nella chiesa di San Giuda Taddeo ai Cessati Spiriti, nel quartiere Appio-Latino, quattro giorni prima della festa patronale, che viene celebrata oggi, quando la Chiesa ricorda il suo martirio. Niente aria di scoop o sensazionalismo, premette il parroco, don Attilio Nostro. Ma l’intento di «valorizzare la devozione al Santo, che invita a contemplare il volto di Cristo. Propone Gesù, attraverso la memoria della sua gloriosa risurrezione». Ed è proprio in questo contesto che la parrocchia ha appena inaugurato, e collocato accanto all’altare della chiesa, una statua che raffigura Giuda Taddeo, dal volto radioso, con un panno tra le mani che reca impresso il volto di Gesù. «Non chiede venerazione per se stesso - precisa la Marinelli - ma per Cristo». Giuda detto Taddeo - cioè «dal petto largo», ovvero «magnanimo» - che era fratello di Giacomo (apostolo anch’egli, figlio di Alfeo e di Maria di Cleofe), evangelizzatore nella Persia e in altre regioni. Patrono delle «cause impossibili» per le preghiere esaudite in modo miracoloso, anche quando la domanda ad ogni umana previsione sembra senza speranza. Che viene invocato ora, da Emanuela Marinelli, anche come patrono dei sindonologi, perché avrebbe contribuito a salvare la Sindone.Secondo le informazioni fornite dagli autori siriaci, l’attività apostolica di Giuda Taddeo è arrivata ad Edessa: in un testo del XIII secolo gli apostoli Giuda Taddeo e Bartolomeo sono chiamati «i nostri primi illuminatori». E là arriva il Mandylion, come testimonia nell’ottavo secolo Giorgio il Monaco: «C’è nella città l’immagine di Cristo non fatta da mano d’uomo, che opera stupefacenti meraviglie. Il Signore stesso, dopo aver impresso in un "soudarion" l’aspetto della sua forma, mandò l’immagine che conserva la fisionomia della sua forma umana per l’intermediario Taddeo apostolo ad Abgar, toparca della città degli Edesseni, e guarì la sua malattia».Dello stesso periodo un altro documento, del segretario del patriarca Tarasio, che narra l’arrivo di Taddeo ad Edessa e la venerazione degli abitanti alla «fisionomia del Signore non fatta da mano d’uomo». Un panno piccolo, così appare, ma la Marinelli rileva che si tratta di «un telo ripiegato». E sottolinea l’identità tra il volto della Sindone e le copie del Mandylion, per esempio quelle sulle icone a partire dal VI secolo: oltre un centinaio i punti di congruenza, di sovrapponibilità cioè fra due figure.

Sulla Dormizione

E tu, la più santa delle tombe consacrate, almeno dopo la tomba vivificante del Signore, che fu la culla della resurrezione- io ti parlerò come parlerei a un essere vivente -, dov'è l'oro puro che le mani degli apostoli deposero in te come un tesoro? Dov'è la ricchezza inesauribile? Dove è l'oggetto prezioso ricevuto da Dio? Dov'è la tavola vivente, il libro nuovo in cui ineffabilmente la Parola divina si è inscritta senza l'ausilio della mano? Dov'è l'abisso della grazia, l'oceano delle guarigioni? Dov'è la fonte generatrice di vita? Dov'è il corpo della Madre di Dio, oggetto di tanti voti e tanto amore?
Perché cercate in una tomba colei che fu elevata alle dimore celesti? Perché mi fate domande sulla sua scomparsa? Io non so contrastare la volontà divina. Quando ha lasciato la sindone, che ha santificato anche me impregnandomi di soave profumo e facendo di me un tempio divino, il corpo santo è stato rimosso e se ne è andato, accompagnato da angeli e arcangeli e da tutte le potenze celesti. Adesso mi custodiscono gli angeli; in me dimora la grazia di Dio. Io sono diventata per i malati la medicina che scaccia i mali, io la fonte eterna della guarigione, io la difesa dai demoni; io sono diventata la città in cui trovano protezione tutti coloro che si rifugiano".
Giovanni Damasceno - Sulla dormizione II, 17

La dormizione della Tuttasanta

di Georgios Karalis
Il 15 agosto la Chiesa cristiana festeggia la Dormizione di Maria. Secondo la tradizione ortodossa dal 1 al 14 agosto si deve digiunare, fatta eccezione per il 6 di quel mese, che è la festa della Trasfigurazione, in cui si mangia pesce. Il popolo greco chiama il digiuno di agosto “piccola quaresima” e la festa della Dormizione di Maria “Pasqua dell’estate”. Esso riconosce, pertanto, l’incontro della Tuttasanta con la morte come un episodio molto importante che riguarda la nostra vita.
È a tutti noto che il centro dell’insegnamento cristiano, la festa per eccellenza, è l’incontro del Figlio Unigenito di Maria con la morte, da dove è scaturita la risurrezione dei morti. Ma non è sicuramente meno importante anche il confronto della Madre con l’ultimo nemico dell’umanità. E questo non solo perché rivela delle dimensioni importanti del mistero della salvezza del mondo, che Cristo ha attuato in modo unico e insuperabile, ma perché Maria ha affrontato la morte con estrema umiltà, con fede in Dio e abbandono in Lui, anche se essa avrebbe potuto non morire in quanto “Madre della Vita”.
In effetti, per la teologia ortodossa la morte è l’ultimo risultato del peccato dell’uomo, della sua incapacità di esistere come Dio lo ha plasmato. Se il Dio-uomo (il Theantropos) ha fatto agire nella propria natura la morte volontariamente, perché voleva salvare tutti noi, sua Madre ha subito la morte senza alcuna protesta, pacificamente, per testimoniare da una parte che la sua origine è l’umanità decaduta, dall’altra parte per comprovare la trasmissione “economica” della mortalità nel suo Figlio che è Dio e uomo.
Ma la morte e la mortalità che caratterizzano l’uomo non sono solo semplici processi momentanei con i quali finisce la nostra vita sulla terra o si rovina il nostro corpo dando così la possibilità all’anima di volarsene via. Sono malattie sostanziali che esistono già nei primi passi della nostra esistenza e permangono fino all’ultimo suo istante, malattie che sfociano nel decesso e nella decomposizione. Sta proprio in questo la grandezza della Tuttasanta. Pur avendo il diritto di trascendere la mortalità, a causa della sua unica partecipazione all’incarnazione del Logos immortale e del suo contatto vivificante con Lui, essa ha voluto subire naturalmente il comune destino e non evitarlo. Una posizione, questa, tanto saggia e tanto giusta. Perché, come si sarebbe potuto credere al fatto che essa ha trasmesso la mortalità a Dio, se lei stessa si fosse presentata immortale? Ella è rimasta, però, estranea a quelle manifestazioni della mortalità che tutti gli esseri umani hanno la possibilità di evitare, anche se sono veramente pochissimi quelli che le evitano del tutto. Perché, se è vero che la mortalità è dentro la nostra consistenza biologica, allora essa appare in tutte le manifestazioni della nostra vita naturalmente. In questo senso, anche il pianto del bambino, il gioco del ragazzo, il sogno dell’adolescente, la professione dell’adulto, la creazione di ogni artista e in genere ogni piega della nostra civiltà non sono nient’altro che manifestazioni di questa nostra malattia e rivelazioni della nostra ferita senza una tendenza di guarigione.
Per questo motivo la Tuttasanta ha vissuto una vita così nascosta, così silenziosa sulla terra. Perché non partecipava alle nostre passioni e non poteva essere colpita da esse. E morì senza la minima resistenza alla morte, perché sapeva che sarebbe rimasta sempre viva e “Madre di Vita”.Non si sono mai saputi i suoi pianti di bambina, né i suoi giochi di ragazza. Nessuno ha mai conosciuto i suoi sogni di adulta, perché la continua presenza della realtà increata che era sempre con lei, fin da piccola, rendeva tutto ciò inutile. Neppure ella si è distinta in qualche professione né ha ottenuto qualche risalto nelle scienze o nelle arti. Estranea a tutto ciò, ha mostrato concretamente quanto distava dalla nostra malattia umana. Per questo, partendo da questo mondo con la sua mistica, indicibile e reale Dormizione, ha concluso la sua grande lezione, che è il silenzio della sua vita terrena. Il nascondersi è la medicina per la nostra malattia. Nascondersi non in un modo vuoto e senza logica. Ma pieno della fede nel Logos Risorto della vita, nel suo Figlio e suo Dio alla cui volontà mai ha detto no.
Se eliminare ogni distinzione egoistica personale e sociale è la condizione per la salvezza, se scomparire “fino alla morte” da ogni scena “spirituale”, “civile” o “sociale” è la via, la verità e la vita per i cristiani di ogni epoca, e se questo è il messaggio silenzioso che la Madre di Dio praticò per noi sia con la sua vita sia con la sua obbedienza “fino alla morte”, cosa succede ai nostri giorni – ci si chiede – quando invece “la libertà della persona” viene lodata molto di più della Madre degna di ogni lode? Come può un essere umano volere Dio con tutta la sua anima, come può non resistere mai alla volontà di Lui, come può annullare sempre il proprio essere privandosi di tutto fino alla negazione totale di ogni propria aspirazione e rimanere, dall’altra parte, libero e irremovibile di fronte ad ogni realtà effimera? Come ha fatto la Madre di Dio a restare, da una parte, così umile, così invisibile (senza alcuna azione importante per il mondo), durante tutta la sua vita, e, dall’altra parte, tanto attiva da cooperare con lo stesso Dio?
Queste domande in realtà non avrebbero alcun senso, se la concezione dei cristiani attuali, nonché dei teologi, in ordine alla “libertà” e alla “persona” si identificassero con quella dei Padri della Chiesa.
In effetti, per i Padri la libertà è una proprietà della natura, di “ogni natura razionale”, e per questo è del tutto estranea sia alla “persona” sia al “peccato”, che è sempre una scelta personale. “Non abbiamo una forza naturale per creare il peccato” ma “subiamo contro natura la nostra gnômê (persuasione personale), che produce accidentalmente il peccato”, insegnano i Padri della Chiesa. Pecchiamo soltanto come persone, come distinzioni uniche e irripetibili. Ci distacchiamo con la nostra gnômê (persuasione personale) dalla comunanza della natura e soffriamo così ogni male perché la gnômê (persuasione personale) “contraddistingue la persona”. La Tuttasanta è rimasta immune dal peccato anche prima dell’Annunciazione, precisamente perché mai ha abbandonato la comunanza della natura per seguire, con la sua volontà gnomica, la scelta o l’inclinazione personale. Questo non significa certo che essa abbia messo in secondo piano la propria personalità nel suo sforzo di adattarsi alle condizioni della vita divina. Significa soltanto che non ha permesso a nessuna influenza innaturale di agire al di sopra della sua natura umana. Perché sapeva che ogni influenza di tal genere consentiva alla sua natura di muoversi al di fuori del binario prestabilito dallo stesso Creatore. Perché appunto questa è la libertà della natura. Di muoversi sempre, senza interruzione, verso il suo Creatore; non la sua possibilità di scegliere, ma la sua possibilità di superare ogni dilemma con un continuo movimento verso una destinazione fissa, verso “il fine beato per il quale tutto è stato fatto”.
Se un essere umano si attiene alla sua destinazione, secondo natura, e aspetta e vede il suo “fine”, ha come conseguenza immediata di rimanere senza peccato: “non partecipare al peccato è un’opera della natura”, insegnano i grandi Maestri e Padri della Chiesa.
Se l’uomo fosse stato soltanto natura non avrebbe mai potuto cadere nel peccato. Ma l’uomo non è solo natura; egli ha, altresì, un “modo di esistenza”: per questo è possibile peccare, sbagliare il bersaglio, non arrivare al “beato fine”. Il detto: “Non esiste un uomo che vive che non peccherà” non è motivato dalla natura umana in se stessa, perché in questo caso il peccato verrebbe attribuito allo stesso Dio, creatore di una natura cattiva. È motivato, invece, dal “modo di usare” la natura, modo che “è una proprietà assoluta di colui che usa la natura e che lo fa distinguere da tutti gli altri”. L’utilizzo personale del mondo e specialmente del corpo e dell’anima, in particolare della volontà, rende gli uomini capaci di peccare (cf Rom 5,19), semplicemente perché li separa dalla comunanza della natura, aggiungendo ad ognuno la particolarità di una cultura, di una educazione, di una civiltà, di un’arte, di una razza, di un colore, di una nazionalità, in maniera tale che tutti risultano distinti e separati. Essi si allontanano così dalla loro comune eguaglianza ed identità che avrebbe loro permesso di rimanere umili e innocenti come bambini.
La Tuttasanta ha evitato di appropriarsi della sua natura; ha evitato di accettare la precedenza del “modo di esistere” rispetto alla natura comune. Mai ha dato la priorità ad un modo di esistere proprio, per sperimentare il piacere di diversificarsi “contro natura”, che separa la natura umana in gruppi che sono in lite e guerra fra loro. Conoscendo con la sua esperienza che la “comunione” con Dio e con gli esseri umani si fa soltanto tramite le energie naturali (increate nel caso di Dio) e non tramite le persone, ha sottomesso il suo “modo di esistenza” alla sua natura, per non mutare la natura, con questo “modo di esistenza”, verso l’amore di se stessa o l’interesse proprio, isolandola dalla continua “comunione” con Dio.
La Madre di Dio non poteva sviluppare una “propria volontà” contraria alla volontà comune della natura, precisamente perché ha sottomesso la gnômê (persuasione personale) alla forza volitiva della natura, non permettendole di imprigionarla nel peccato.
Quando la volontà naturale fa il suo lavoro, e nessuna mutazione della persuasione personale minaccia la sua forza, per indurla a delle scelte personali (con i desideri e le tensioni correlative), l’uomo sperimenta la libertà, che lo unisce a Dio e non lo lascia distinguersi come persona che si appropria della natura e si allontana da Dio (peccato).La libertà secondo natura è al contempo libertà dal peccato e sottomissione reale a Dio. Per questo motivo i Padri della Chiesa non fanno nessuna distinzione fra libertà e volontà, ma identificano la volontà naturale con la libertà e la volontà personale con il peccato. Non intendono certo affermare, in questo modo, che la natura umana abbia, a partire dalla creazione, due volontà (naturale e gnomica, cioè personale); conoscono, infatti, dalla loro esperienza che, perché possa esistere una volontà personale, l’uomo deve appropriarsi della forza volitiva naturale per soddisfare mire e desideri che sono contrari alla natura, vivendo solo in termini personali e lottando contro la natura comune. Per questo motivo l’orgoglio è il peccato più grave, perché è uno sforzo continuo teso a smentire la libertà naturale, la bontà, l’amore, che l’uomo ha a causa della creazione, e a farli apparire come riuscite personali di alcuni esseri umani, cosicché la lode sia riferita a questi e non a Dio che è il creatore “di ogni virtù degna di lode”. Secondo l’antropologia ortodossa, però, l’essere umano, per diventare pieno di virtù e senza peccato, non deve compiere imprese personali, semplicemente perché la virtù e il non peccare sono dati naturali: “infatti, sono naturali le virtù e naturalmente esistono tutte, anche se tutti noi non operiamo le cose della natura; infatti se tutti attuassimo in modo uguale le proprietà della natura, scopo per il quale pure siamo nati, allora si rivelerebbe in tutti, come una sola natura, così anche una sola virtù, che non ammette il più e il meno”. Quando un essere umano opera le cose naturali, significa che si mantiene libero dal peccato. Nessuno ha allora bisogno di nascere “con l’immacolata concezione” per assicurarsi il fatto di non commettere peccati. È necessaria però la nascita dalla vergine per Colui che “vuole eliminare chi ha il dominio della morte” e liberare dal potere del diavolo e della corruzione tutti quelli che sono loro schiavi. Per questo motivo la Tuttasanta viene concepita come tutti gli esseri umani dopo la caduta e muore, come tutti dopo la caduta, per confermare sia la mortalità terrena che essa aveva e che aveva trasmesso a suo Figlio, sia il fatto che né la caduta né la corruzione hanno potuto mai eliminare la possibilità per l’uomo di vivere secondo natura, cioè senza peccare: “È possibile, anche se abbiamo un corpo mortale, non peccare”, sentenziavano i Padri.
Molti teologi non hanno capito questa nozione semplicissima e confondono il “non commettere peccati” vivendo “secondo natura” con la divinizzazione “sopra i limiti della natura”. Così credono che chi vive “secondo natura” e non commette peccati sia già salvato. La grandissima differenza fra il “non commettere peccati” e la “divinizzazione” è stata conosciuta con l’incarnazione del Logos. La mancanza totale di peccato nel Logos non dipende solo dal fatto che Egli operava le cose della natura vivendo “secondo natura”, ma principalmente dalla mancanza del “modo di esistenza (persona)” umano (mutabile, cioè), che può cadere o subire le conseguenze della caduta. A questo punto la natura umana che Egli ha assunto non aveva nessuna possibilità di peccare. I Padri della Chiesa sono andati oltre e hanno chiarito che la divinizzazione della natura umana del Dio-uomo non è solo l’effetto dell’unione delle due nature, ma principalmente è la conseguenza dell’unione ipostatica: “perché la carne rimanga carne secondo l’essenza e diventi Divina secondo l’ipostasi” . La divinizzazione della natura umana di Cristo viene fatta con l’ingresso di questa natura nell’ipostasi increata di Uno della Trinità, in modo tale che la natura umana rimanga nel contempo creata secondo la sostanza e increata secondo “il modo di esistenza”. Così, quello che Cristo assume (il proslêmma) non ha una persona umana, anche se non rimane mai privato di persona, perché ha come sua persona l’ipostasi increata del Logos
Questa “divina Ipostasi incarnata” ha reso Madre di Dio la Tuttasanta; la divina Ipostasi è uscita dalla sue viscere, divinizzando anche Maria “per grazia”, per contatto, ma non secondo l’ipostasi.
Così la Madre di Dio diventa Madre di Vita e di Salvezza, non solo per se stessa, ma anche per tutta la natura umana, adattando la sua gnômê (persuasione personale) e il suo modo di esistenza alla chiamata di Dio alla salvezza di questa natura. Ella sapeva infatti per esperienza che non basta la volontà di Dio per effettuare la salvezza delle creature razionali, ma vengono richieste anche l’intenzione e la cooperazione di coloro stessi che devono esseri salvati. E così “l’intenzione dei chiamati ha operato la salvezza”. Vivendo secondo natura, Maria era in grado di rispondere spontaneamente sia alla chiamata di Dio a diventare sua Madre, sia al sopraggiungere della morte.Nel primo caso serviva solo la forza della volontà naturale per dire “Sia fatta la tua volontà. Nel secondo caso però Ella doveva accettare la morte con la sua persuasione personale (gnômê), come un’ultima fase del mistero della salvezza, perché la volontà naturale da sola non è in grado di accettare il nemico della natura mortale. Così la Tuttasanta poteva, conservando con umiltà la sua invisibilità per il mondo, percorrere tutto lo spazio delle possibilità umane, come suo Figlio, rimanendo anche lei, come Lui, “libera nella morte” e ritornando molto presto nel suo corpo in gloria, come una vera Madre della Vita: “per questo è impossibile per lei essere dominata dalla morte”
Per la sua preghiera, Cristo, nostro Dio, salvaci!

Pensieri sulla Sindone

La semplicità della sepoltura del Signore condanna le pretese dei ricchi, che non possono portare con sé le loro ricchezze fin nelle loro tombe. Ecco quello che noi possiamo comprendere in senso spirituale: il corpo del Signore non deve essere avvolto nell'oro, nelle perle o nella seta, ma in un lino puro. Inoltre c'è un altro possibile significato. Colui che avvolge Gesù in un lenzuolo bianco è colui che l'ha ricevuto con un cuore puro. San Girolamo - Su S. Matteo 27,59, (441-459)

E il giusto avvolge il corpo di Cristo in un lenzuolo, l’innocente lo unge con il profumo; troviamo che queste precisazioni non sono superflue, poiché la giustizia veste la Chiesa e l’innocenza somministra la grazia. Perciò rivesti anche tu della sua gloria il corpo del Signore, in modo da essere anche tu giusto, e sebbene lo giudichi morto, coprilo con la pienezza della sua divinità. Ungilo di mirra e di aloe, affinché tu sia il buon profumo di Cristo. Giuseppe, l’uomo giusto, adoperò un eccellente lenzuolo: probabilmente era quello che Pietro vide calare verso di sé dal cielo, pieno di ogni genere di quadrupede e di fiere per rappresentare i pagani (At 10,11). Pertanto la Chiesa viene con Lui seppellita in quell’unguento mistico, autentico, perché in essa ha riunito insieme le diversità dei popoli comunicando loro la sua fede.
Ambrogio - Esposizione del Vangelo secondo Luca X, 137

Come a Giuseppe d'Arimatea, il discepolo giusto e santo, accordami il tuo corpo come dono di grazia, Tu che distribuisci a tutti la vita.
In un lenzuolo puro Tu sei stato avvolto, in una tomba nuova Tu sei stato posto; non permettere mai che io sia simile a coloro che discendono negli inferi.
Donami di far morire la mia anima al vizio, rendila viva con lo Spirito, a causa del mistero della santa mirra e dell'incenso puro dal profumo soave.
Tu che dai cori angelici in maniera invisibile sei onorato con timore, Tu il medesimo, Tu sei stato vegliato dai soldati, o guardiano vigilante d'Israele. Proteggimi con la legge, e affidami all'Angelo santo, affinché di notte mi mantenga sano e salvo nel combattimento spirituale.
Tu sei stato sigillato con l'anello della guardia sacerdotale dissoluta; Tu che sei tesoro di vita immortale, Tu sei stato sigillato nel cuore della terra.
Le porte del mio spirito e dei miei sensi, dove si trovano bene e male, sigillale con il segno della tua Croce, e stabilisci in me il bene.
Nerses Snorhali - Gesù unico Figlio del Puro, 758-764