mercoledì 18 maggio 2011

“Metodo Estivill”, nessun valore scientifico e minaccia per lo sviluppo affettivo dei bambini

C’è un enorme equivoco circa l’efficacia e la validità scientifica del cosiddetto “metodo Estivill” illustrato nel (troppo) famoso libretto “Fate la nanna” edito nel 1999 da Mandragora (1). Gli autori si rifanno ad un metodo noto da più di un secolo che mira a far estinguere comportamenti ritenuti non desiderabili.
I risvegli notturni dei bambini dai sei mesi in poi rientrerebbero tra questi comportamenti e i genitori dovrebbero applicare questo metodo per assicurare a se stessi e ai propri neonati notti intere senza risvegli.
È quantomeno curioso notare come in fondo al libro in questione non ci sia neanche un rigo di bibliografia e come dalla sua pubblicazione ad oggi gli autori non abbiano pubblicato neanche uno studio scientifico sull’applicazione del “loro” metodo.
Al contrario, autorevoli associazioni mondiali hanno prodotto documenti ufficiali in cui si mette in guardia dai possibili rischi collegati a questo metodo. Vediamone alcuni:
Esiste una nota pubblicata dall’Associazione Australiana per la Salute Mentale Infantile (2) (AAIMHI) sugli effetti dannosi del lasciar piangere i bambini durante l’addormentamento o ai loro risvegli. L’articolo in questione si riferisce al pianto associato al sonno e ai metodi che pretendono di far dormire i bambini utilizzando l’estinzione graduale, cioè una tecnica comportamentale diretta a modificare i comportamenti considerati patogeni.
Il pianto, quindi, rientrerebbe tra questi comportamenti indesiderati e modificabili attraverso apprendimenti che gradualmente lo renderebbero inutile. Infatti è proprio questo che i metodi in questione provocano: non che il bambino non si svegli, bensì che non usi più il pianto per richiamare il genitore in caso di necessità.
La nota dell’AAIMHI afferma che:
- Il pianto dei bambini è sempre un’indicazione di stress o di disagio emotivo. Non rispondere al pianto dei bambini (ovvero evitare di confortarli) insegna ai bambini a non cercare conforto emotivo quando sono in una situazione di disagio. Questo vuol dire che perdono fiducia nelle figure parentali e nella relazione che si instaura con loro.
- Intorno ai sei mesi di vita i bambini sperimentano l’ansia da separazione. Questo vuol dire che devono elaborare il concetto che se la madre (o altra figura parentale di riferimento) si allontana poi ritornerà e loro non verranno lasciati soli. Questo processo di elaborazione può durare diversi mesi, ma è essenziale per il loro equilibrio anche in età adulta.
- I bambini normalmente hanno bisogno dei genitori per essere confortati di notte fin circa ai tre/quattro anni (alcuni prima, altri dopo, dipenderà dal bambino) e questo non può essere etichettato come disturbo del sonno.
- I bambini svilupperanno un attaccamento più sicuro quanto più la loro richiesta di conforto e rassicurazione verrà soddisfatta dai genitori, sia di giorno che di notte.
- Per un genitore sentire il proprio figlio che piange in maniera incontrollata e non intervenire per calmarlo e rassicurarlo è una grossa fonte di stress.
Da un punto di vista psicologico, il pianto ignorato rappresenta una mancanza di efficacia del segnale che i bambini da sempre utilizzano per comunicare coi propri genitori o con chi si prende cura di loro, e può creare in loro sensazioni di inadeguatezza circa la propria capacità di esprimere paure e disagi, ricevendone regolazione emotiva dall’adulto.
A questo proposito la psicologa Sue Gerhardt (3) illustra l’effetto che il pianto prolungato dei bambini ha sul loro sistema endocrino: “l’essere costantemente ignorati quando si piange è particolarmente pericoloso perché alti livelli di cortisolo (un ormone prodotto in situazioni di stress) nei primi mesi possono anche incidere sullo sviluppo di altri sistemi di neurotrasmettitori i cui percorsi devono ancora essere stabiliti. Essi sono ancora immaturi e non pienamente sviluppati persino dopo lo svezzamento. Infatti il ritmo normale di produzione di cortisolo ha un picco la mattina al risveglio e ci vuole quasi tutta la prima infanzia (fino ai 4 anni circa) per stabilire un andamento adulto della quantità di cortisolo, alta la mattina e bassa la sera”.
Inoltre, sempre la stessa autrice fa notare come: “si è scoperto che coloro che hanno avuto un costante contatto fisico, sono stati spesso tenuti in braccio e hanno ricevuto molta attenzione durante la prima infanzia, da adulti hanno un’abbondanza di recettori del cortisolo. Ciò significa che possono facilmente gestire lo stress.”
Anche le ricerche di Prescott (4), neuropsicologo americano, effettuate su 49 culture del mondo, hanno dimostrato come esista una correlazione tra soddisfazione del bisogno del contatto da piccoli e aggressività da adulti. Questo autore evidenzia quanto minori sono le espressioni tattili di un popolo come abitudine di accudimento dei bambini, maggiori sono i tassi di aggressività degli adulti. Questo dimostra come sia la cultura di appartenenza che condiziona le modalità di accudimento dei bambini, in quanto i loro bisogni sono sempre gli stessi.
Anche l’ACP (Associazione Culturale Pediatri italiana) si è espressa a sfavore del metodo dell’estinzione graduale (5) concludendo che questo metodo è efficace a breve ma non a lungo termine. Inoltre concorda con la posizione appena esposta dell’AAIMHI circa le possibili conseguenze psicologiche negative.
Alcune ricerche americane affermano che stress protratti nei bambini possono addirittura provocare danni cerebrali (6).
Anche la psicologa inglese Margot Sunderland (7) direttrice del Center for Child Mental Health di Londra mette in guardia dai possibili danni neurologici che possono riscontrarsi in bambini costretti a piangere a lungo. Questa autrice parla proprio del ruolo dell’accudimento genitoriale in relazione alla crescita e allo sviluppo dell’architettura cerebrale dei neonati e dei bambini.
In conclusione, siamo davanti ad una operazione commerciale molto ben riuscita ma priva di valore scientifico e per giunta non scevra di gravi rischi per i nostri bambini.I lettori comprano, regalano e utilizzano questo libro pensando di risolvere un falso problema in quanto i risvegli notturni dei bambini fino circa al terzo anno di età rientrano nel normale sviluppo fisiologico delle loro cellule nervose (8).
Purtroppo i rischi correlati a questo metodo circa lo sviluppo affettivo dei bambini non sono sufficientemente noti alla maggior parte dei genitori e degli operatori che lo consigliano.
Il bisogno di contatto e di rassicurazione dei bambini non va mai ignorato né di giorno, né di notte, solo così avremo bambini oggi e adulti domani capaci di dare valore agli aspetti legati al mondo affettivo degli esseri umani.
Alessandra Bortolotti

Regole di base per l'igiene del neonato

Fin dai primi giorni di vita di un bambino viene da più parti raccomandato alla neomamma di prendersi cura della pulizia del neonato in modo particolare.
Il bagnetto tanto raccomandato rischia però di essere un’aggressione continua alla pelle di nostro figlio che è delicata e ancora priva di barriere lipidiche.
Non è assolutamente necessario lavare i neonati tutti i giorni, anzi!
Per detergere senza aggredire, però, possiamo:
- Usare per il bagnetto esclusivamente amidi o farine di riso, di mais, o di grano saraceno; evitiamo fino all’anno di età l’avena e altri cereali contenenti glutine.
- Controllare gli ingredienti dato che in alcuni di questi prodotti inspiegabilmente si trovano dei conservanti!
- Pulire il sederino solo con acqua oppure con olio (va benissimo quello extravergine d’oliva)
- Evitare le salviette imbevute: in caso di bisogno se non ne troviamo di naturali, assai rare, possiamo sostituirle con dei fazzoletti imbevuti di un olio a nostro piacere (oliva, mandorle, girasole..).
- E’ meglio non usare saponi e bagnoschiuma, troppo aggressivi e/o che non rispettano il PH fisiologico della pelle che nei bambini è vicino alla neutralità.
Se è proprio necessario lavargli i capelli usiamo poche gocce di shampoo, prestando ovviamente attenzione a sceglierlo naturale e privo di sostanze potenzialmente nocive.
In generale tutti i prodotti che entrano a contatto diretto o indiretto con un bambino molto piccolo dovrebbero essere privi di profumazione non solo per il possibile effetto allergizzante ma soprattutto perché disturberebbero la sensibilità olfattiva del bambino stesso.
Elena Suppo

La cura dei denti da latte

La comparsa dei primi dentini spesso è fonte per i genitori di interrogativi e preoccupazioni sul come prendersene cura nel modo migliore.
Ovviamente è fondamentale abituare i bambini fin da subito ad usare lo spazzolino, che svolge un’azione pulente di tipo meccanico, ma altrettanto importante è abituarli a sciacquarsi la bocca dopo l’assunzione di determinati alimenti.
La formazione della carie è infatti favorita da un ambiente acido, che ad esempio si crea dopo l’assunzione di zuccheri, ed è sufficiente un buon risciacquo con acqua per aiutare il ripristino del giusto PH della cavo orale.
Il dentifricio invece è assolutamente da evitare nei primi tre anni di vita, dato che i bambini lo mangiano!, e comunque sconsigliato fino al cambio dei denti.
Un’alternativa efficace ed economica che possiamo facilmente produrre in casa è un soluzione satura di bicarbonato di sodio: ad un bicchiere pieno d’acqua aggiungiamo pian piano del bicarbonato, mescolando finché non comincia a depositarsi sul fondo. A questo punto la soluzione è pronta e volendo possiamo aggiungervi due gocce di olio essenziale: gli agrumi sono perfetti.
Il bicarbonato disciolto in acqua ci garantisce un PH equilibrato e ha un ottimo potere pulente senza abradere lo smalto, ma molti dentisti indottrinati dalle industrie cosmetiche ne osteggiano l’uso…
Se proprio vogliamo acquistare un dentifricio scegliamolo naturalmente tra quelli eco-bio ma facendo attenzione che:
- l’agente abrasivo sia la silice idrata, carbonato di calcio e caolino sono troppo aggressivi per i denti da latte
- non contenga fluoro, il cui uso è molto dibattuto e che comunque secondo un decreto europeo deve essere utilizzato fino ai 6 anni con grande attenzione data la pericolosità della sua ingestione.
- non contenga tensioattivi, sono assolutamente inutili all’interno della bocca e di certo è meglio non vi entrino.
Elena Suppo

Prematuri: comprendere i termini medici

Come si stabilisce che un bambino è prematuro? Quali sono gli indicatori di prematurità?
Potremmo cominciare questa rubrica facendo un po’ di chiarezza nei termini che comunemente adottiamo per definire i neonati prematuri e che vengono spesso usati impropriamente da riviste e giornali.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il Bambino Prematuro (o Pretermine) è quel bambino che nasce prima della 37^ settimana di gestazione e con peso inferiore ai 2,5 kg.
Se vogliamo ottenere una classificazione puntuale e dettagliata della prematurità, che ci dica qualcosa di più del bambino, possiamo precisare maggiormente questi criteri.
Il peso al momento della nascita, infatti, viene ulteriormente suddiviso considerando bambini che nascono con peso inferiore a 2,5kg (definiti Low Birth Weight, Basso peso alla nascita), bambini con peso compreso tra 1 e 1,5 kg (Very Low Birth Weight, Peso molto basso alla nascita) e infine bambini con peso inferiore a 1 kg (Extremely Low Birth Weght, Peso estremamente basso alla nascita).
L’età gestazionale (e.g.) è invece classificata prendendo in esame la durata della gestazione. Abbiamo quindi neonati nati prima della 28^ settimana, chiamati Extremely Preterm (Estremamente prematuro), i bambini nati tra la 28^ e la 32^ sono Very Preterm (Fortemente prematuro), quelli nati tra la 32^ e la 37^ settimana vengono definiti Preterm (Prematuro), e i bambini nati tra la 37^ e la 42^ settimana definiti A Term (A termine), i bambini che nascono oltre le 42 settimane di gestazione sono invece definiti Post-Term (Post Termine).
Se consideriamo sia i dati relativi al peso che all’età gestazionale all’epoca del parto, abbiamo un’ulteriore classificazione che valuta l’adeguatezza del peso alla nascita rispetto all’età gestazionale. Avremo quindi: i bambini con peso basso per l’età gestazionale (definiti SGA Small for Gestational Age, Piccolo per l’età gestazionale: con peso inferiore al 10° percentile); bambini con peso adeguato all’epoca gestazionale (AGA Appopriate for Gestational Age, Appropriato per l’età gestazionale: tra il 10° e il 90° percentile), infine bambini con peso oltre il 90° percentile o LGA (Large for Gestational Age Grande per l’età gestazionale).
Ci sono poi ulteriori fattori che presi in esame aiutano i ricercatori a classificare la prematurità partendo dal tipo di gravidanza, dalla presenza o meno di patologie materne o del bambino, dalla causa della nascita prematura e dal tipo di parto.
Non vorremmo avervi fatto impazzire di “sigle” ma solo avervi dato qualche elemento in più per addentravi nel complesso mondo dei piccoli.
Alla prossima!
Raffaella Doni e Alessia Motta

Chi è il bambino prematuro?

Come si stabilisce che un bambino è prematuro? Quali sono gli indicatori di prematurità?
Potremmo cominciare questa rubrica facendo un po’ di chiarezza nei termini che comunemente adottiamo per definire i neonati prematuri e che vengono spesso usati impropriamente da riviste e giornali.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il Bambino Prematuro (o Pretermine) è quel bambino che nasce prima della 37^ settimana di gestazione e con peso inferiore ai 2,5 kg.
Se vogliamo ottenere una classificazione puntuale e dettagliata della prematurità, che ci dica qualcosa di più del bambino, possiamo precisare maggiormente questi criteri.
Il peso al momento della nascita, infatti, viene ulteriormente suddiviso considerando bambini che nascono con peso inferiore a 2,5kg (definiti Low Birth Weight, Basso peso alla nascita), bambini con peso compreso tra 1 e 1,5 kg (Very Low Birth Weight, Peso molto basso alla nascita) e infine bambini con peso inferiore a 1 kg (Extremely Low Birth Weght, Peso estremamente basso alla nascita).
L’età gestazionale (e.g.) è invece classificata prendendo in esame la durata della gestazione. Abbiamo quindi neonati nati prima della 28^ settimana, chiamati Extremely Preterm (Estremamente prematuro), i bambini nati tra la 28^ e la 32^ sono Very Preterm (Fortemente prematuro), quelli nati tra la 32^ e la 37^ settimana vengono definiti Preterm (Prematuro), e i bambini nati tra la 37^ e la 42^ settimana definiti A Term (A termine), i bambini che nascono oltre le 42 settimane di gestazione sono invece definiti Post-Term (Post Termine).
Se consideriamo sia i dati relativi al peso che all’età gestazionale all’epoca del parto, abbiamo un’ulteriore classificazione che valuta l’adeguatezza del peso alla nascita rispetto all’età gestazionale. Avremo quindi: i bambini con peso basso per l’età gestazionale (definiti SGA Small for Gestational Age, Piccolo per l’età gestazionale: con peso inferiore al 10° percentile); bambini con peso adeguato all’epoca gestazionale (AGA Appopriate for Gestational Age, Appropriato per l’età gestazionale: tra il 10° e il 90° percentile), infine bambini con peso oltre il 90° percentile o LGA (Large for Gestational Age Grande per l’età gestazionale).
Ci sono poi ulteriori fattori che presi in esame aiutano i ricercatori a classificare la prematurità partendo dal tipo di gravidanza, dalla presenza o meno di patologie materne o del bambino, dalla causa della nascita prematura e dal tipo di parto.
Non vorremmo avervi fatto impazzire di “sigle” ma solo avervi dato qualche elemento in più per addentravi nel complesso mondo dei piccoli.
Alla prossima!
Raffaella Doni e Alessia Motta

Dettagli sui pannolini lavabili

Il velo cattura feci (lavabile o usa e getta) serve a preservare il pannolino lavabile da macchie eccessive; consente inoltre ai genitori di cambiare il bambino rapidamente e facilmente: a ogni cambio, è sufficiente rimuovere il velo contenente le feci del bambino e gettarlo nel WC (o nel cestino).
Questo foglio che può avere consistenze diverse, si stende direttamente sul pannolino aperto a diretto contatto con la pelle del bambino.
Ci sono due tipi di veli cattura feci:
- I veli usa e getta, utilizzabili una o più volte: in polpa di legno, o viscosa, biodegradabili possono essere lavati ( e sporchi di pipì) circa 1-2 volte ed essere essere riutilizzati;
- I veli cattura feci lavabili: in micropile (100% poliestere), sono molto morbidi ed economici; a differenza dei veli usa e getta, hanno anche il vantaggio di mantenere il sederino lontano dall’ umidità.
Per genitori sempre di fretta, consiglio vivamente di utilizzare i veli cattura feci usa e getta.

Veli cattura feci sottili o spessi?
Esistono sul mercato due tipi di veli usa e getta:I veli cattura feci più spessi che tengono perfettamente anche le feci liquide (bambini allattati al seno per esempio). Così sono i veli Popolini o JuniorJoy.
Consiglio di non gettare direttamente nel water i veli cattura feci più spessi, potrebbero ostruire le condutture del waterI veli sottili, consigliati per i neonati non allattati al seno o per feci non eccessivamente liquide. Marchi sul mercato, Totsbots, Ecobu.

Veli cattura feci: un obbligo?
Assolutamente no!I veli cattura feci (usa e getta o lavabili) sono opzionali, ma rendono l’utilizzo di pannolini di stoffa più semplice e meno spaventoso!
In fondo,per rimuovere le feci da un pannolino lavabile è sufficiente scuotere il pannolino sul water; se questo non dovesse bastare, si può anche risciacquare il pannolino in attesa del lavaggio vero e proprio.
Rossana Spampinato

Preghiera incessante

Ti ho spiegato brevemente due aspetti o due gradi della preghiera: quella letta, che consiste nel pregare con parole altrui, e quella individuale o mentale, allorché ci eleviamo al Signore con la mente attraverso il pensiero di Dio, consacrando tutto a lui ed invocandolo spesso con tutto il cuore.
Esiste però un terzo aspetto o grado della preghiera ed è proprio in esso che consiste la preghiera autentica ed a cui i due precedenti servono solo come preparazione. Essa è il rivolgersi incessantemente a Dio della mente e del cuore con calore interiore o ardore di spirito. È questo un traguardo a cui deve giungere la preghiera ed un fine che deve proporsi chiunque ad essa si dedichi, affinché i suoi sforzi non siano inutili.
Le Scritture ci insegnano
Tenete presente ciò che della preghiera si legge nella scrittura:
“Vegliate e pregate”, dice il Signore[3];“Siate sobri e vegliate”, insegna l’apostolo Pietro[4];“siate assidui nella preghiera e che essa vi mantenga vigilanti”[5];“Pregate incessantemente”[6],“Vivete nella preghiera e nelle orazioni, pregate in ogni momento nello Spirito”[7]. È questa la raccomandazione dell’apostolo Paolo, il quale in altri passi ci spiega anche la ragione per cui così è e deve essere:infatti “la nostra vita è nascosta con Cristo in Dio”[8] e“lo Spirito di Dio vive in noi”[9] … “per cui noi invochiamo: Abba Padre”.
Da tutte queste indicazioni e raccomandazioni è evidente che la preghiera non si compie una volta sola e s’interrompe, ma è uno stato dello spirito, continuo ed ininterrotto, analogo al respiro ed al battito del cuore, che sono continui ed incessanti.
Alcuni esempi
Voglio spiegarti tutto ciò con un esempio.
Il sole sta al centro ed attorno ad esso si muovono i pianeti attratti verso di lui e rivolti a lui con una qualsiasi loro parte. Ciò che nel mondo materiale è il sole, in quello spirituale è Dio, il sole dello spirito. Trasferite il vostro pensiero al Cielo, che cosa vedrete? Gli Angeli, i quali, secondo le parole del Signore, vedono sempre il volto del loro Padre celeste. Tutti gli spiriti incorporei e tutti i Santi in Cielo sono rivolti verso Dio, a lui volgono gli sguardi del loro spirito e non vogliono allontanarli da lui a causa dell’indicibile beatitudine che deriva loro dalla contemplazione di Dio. Ma ciò che gli Angeli ed i Santi fanno in Cielo, a noi spetta imparare a compiere sulla terra, abituarci cioè a stare, come gli angeli, incessantemente in preghiera dinanzi a Dio nel nostro cuore.
Soltanto chi riuscirà in ciò, sarà veramente dedito alla preghiera. Come ci si rende degni di una così grande grazia?
Impegno
Risponderò in breve a questa domanda: dobbiamo instancabilmente impegnarci nella preghiera, sforzandoci con zelo e con l’animo pieno di speranza, di raggiungere, come la terra promessa, l’ardore dello spirito nell’attenzione continua rivolta a Dio. Impegnati nella preghiera e, pur chiedendo nella preghiera tutto, chiedi particolarmente di raggiungere questo grado supremo della preghiera – l’ardore dello spirito – e certamente otterrai ciò che chiedi. Ci assicura di ciò San Macario l’Egiziano, che sopportò concretamente la fatica della preghiera, ma ne raccolse anche i frutti.
“Se non hai il dono della preghiera – egli dice – sforzati nella preghiera ed il Signore, vedendo il tuo impegno e giudicando, in base alla tua sofferenza, quanto ardentemente desideri questo bene, ti concederà la preghiera”[10].
Lo sforzo, s’intende, solo sino a questo limite. Quando la fiamma si accenderà – e di essa parla il Signore:
“Sono venuto sulla terra a portare il fuoco e vorrei che esso ardesse quanto prima”[11],
– verrà meno la fatica e comincerà una preghiera facile, libera e fonte di conforto.
Non devi pensare che si tratti di una condizione di spirito molto elevata, irraggiungibile per gli uomini di questo mondo. È in realtà una condizione elevata, che tutti però possono raggiungere. Infatti ognuno di noi alle volte sente durante la preghiera affluire nel cuore calore e zelo, quando l’anima, staccatasi da tutto, entra profondamente in se stessa e prega con ardore. Questa discesa temporanea, se così possiamo dire, dello spirito della preghiera, deve trasformarsi in una condizione costante e cosi si raggiungerà il traguardo della preghiera.
Il mezzo per conseguire questo fine è, come ho già detto, l’impegno nella preghiera. Quando si sfregano fra loro due pezzi di legno, si riscaldano e provocano il fuoco.
Due tipi necessari di preghiera
Così, se si sfrega l’anima nell’orazione, essa sprigionerà infine lo spirito della preghiera. La fatica della preghiera costituisce il giusto completamento delle due precedenti forme di preghiera, di cui ho già parlato, cioè dell’adempimento devoto, accompagnato da attenzione e sentimento, delle nostre orazioni e dell’insegnare all’anima di elevarsi spesso a Dio rivolgendo a lui il nostro pensiero, attribuendo tutto a gloria di Dio ed invocandolo dal profondo del cuore.
Anche se noi preghiamo la mattina e la sera, la distanza di tempo rimane sempre grande. Se soltanto in questi momenti della giornata ci rivolgiamo a Dio, per quanto intense siano le nostre preghiere, nel corso della giornata e della notte il vantaggio ricavatone si disperde e quando nuovamente ci accingiamo a pregare, l’anima è fredda e vuota, come prima. Anche se di nuovo preghiamo con fervore, tuttavia, raffreddandoci e distraendoci, che vantaggio ne ricaviamo? È la stessa cosa che costruire e distruggere; fatica e solo fatica.
Se ci proponiamo di recitare con attenzione e sentimento le nostre orazioni non solo mattina e sera, ma, inoltre, ci esercitiamo ogni giorno nel pensiero di Dio ed attribuiamo a sua gloria ogni nostra azione e lo invochiamo spesso dall’intimo del cuore con brevi giaculatorie, noi riempiremo il lungo intervallo, che divide la preghiera mattutina da quella serale e viceversa, rivolgendoci spesso a Dio. Non sarà ancora la preghiera incessante, ma una preghiera spesso ripetuta e quanto più spesso si ripeterà, tanto più vicina sarà all’orazione ininterrotta. Questa fatica segna il passaggio a quest’ultima, come un gradino necessario.
Tre aspetti
Supponiamo infatti che voi adempiate a questo impegno ogni giorno, senza mai ometterlo, infaticabilmente, che cosa accadrà nell’anima vostra?
Il pensiero di Dio genera il timore di Dio. Infatti quest’ultimo consiste nel raggiungere con pensiero riverente e nell’accogliere nel profondo del cuore le infinite perfezioni ed operazioni divine.
Con l’attribuire ogni nostra azione a gloria di Dio, sorge in noi il ricordo del Signore, il che significa camminare davanti a Lui. Ciò non è altro che ricordare, qualsiasi cosa noi si faccia, che ci troviamo davanti a Dio.
Infine, le soventi invocazioni del nome di Dio, o comunque i sentimenti di devozione verso Dio che sgorgano dal nostro cuore, si trasformano in continua, muta, affettuosa, calda implorazione del nome di Dio. Quando l’anima è santificata dal timore di Dio, dal ricordo del Signore o ha l’abitudine di camminare davanti a Dio ed accarezzare affettuosamente nel cuore il dolcissimo nome di Dio, allora necessariamente nel cuore s’accende anche quel fuoco spirituale, di cui ho parlato all’inizio, che sarà all’origine di una profonda pace, di un incessante equilibrio, e di viva ed attiva vigilanza. L’uomo partecipa allora di quello stato, oltre al quale sulla terra non possono andare i suoi desideri: esso è l’autentico preannuncio di quella condizione beata che ci attende nel futuro.
Si realizza in questo caso ciò di cui parla l’apostolo: “La nostra vita è nascosta con il Cristo in Dio” [12].
Cercate di raggiungere questi tre obiettivi con la fatica della preghiera. Essi da soli sono il compenso della fatica e nello stesso tempo la chiave del tempio nascosto del Regno dei Cieli. Aprendo con essi la porta, vi si entra e si giunge ai gradini del Trono di Dio e ci rendiamo degni di ascoltare una parola di approvazione dal Padre Celeste, del suo contatto e del suo abbraccio, grazie al quale tutte le ossa diranno: “Signore, Signore, chi è simile a te?”. Chiedete questo nella fatica della preghiera e ciascuno sospiri: “Quando giungerò e mi presenterò dinanzi al tuo volto, Signore? Il mio volto t’ha cercato, cercherò, o Signore, il tuo volto”.
Perfezione dei tre aspetti della preghiera
Risponderò in breve a quanti desiderano sapere come perfezionarsi nel timor di Dio, nel ricordo di Dio e nell’affettuosa e continua invocazione del nome del Signore.
- Cominciate a cercare e questo sforzo v’insegnerà come trovare.
- Soltanto è necessario attenersi ad un principio: allontanare tutto ciò che in questa ricerca sia d’impedimento, attenersi invece con impegno a quanto possa esserle di giovamento. La pratica insegnerà questa distinzione. A questa indicazione aggiungerò solo il seguente consiglio.
- Quando incomincerete a provare nel cuore un tepore simile a quello che sente il corpo quando è avvolto dal calore, o quando comincerete a comportarvi di fronte a Dio così come davanti ad un personaggio importante, con timore ed attenzione, per non offenderlo in alcun modo, senza tenere in alcun conto il permesso di camminare e di agire liberamente, o allorché vi accorgerete che la vostra anima prova davanti al Signore ciò che la fanciulla davanti al fidanzato ch’essa ama, sappiate allora che è vicino, alle porte il Visitatore nascosto delle anime nostre, che entrerà e cenerà con voi in casa vostra.
Credo che queste poche indicazioni siano sufficienti come guida per coloro che cercano con zelo. Tutto ciò è stato detto con il solo scopo che quanti tra voi hanno a cuore la preghiera, ne conoscano il punto culminante, di modo che, affaticandosi poco e conseguendo un risultato modesto, non credano d’aver raggiunto il fine ultimo ed in questa illusione non vengano meno nelle fatiche e, di conseguenza, non pongano limiti all’ulteriore ascesa attraverso i vari gradi della preghiera. Come sulle vie maestre si pongono colonne, perché quanti le percorrono, sappiano quanta strada hanno percorso e quanta rimane loro ancora, così nella nostra vita spirituale ci sono indicazioni particolari che determinano i gradi di perfezione della vita. Esse sono fissate perché quanti aspirano alla perfezione, rendendosi conto del punto a cui sono giunti e del cammino che resta loro da percorrere, non si fermino a mezza strada, privandosi così del frutto delle loro fatiche, che forse è ormai vicino, purché facciano ancora due o tre passi.
Concludo queste mie parole con la preghiera, che sgorga dal mio cuore, che il Signore vi conceda di comprendere tutto ciò che ho detto, affinché tutti costituiate quell’uomo perfetto nella forza e nell’età, che realizza la pienezza del Cristo[13].
tratta dal sito tradizione cristiana

Preghiera mentale

Ieri, ti ho mostrato come pregare coerentemente con il significato della preghiera. Ma questo è solo il principio dell’arte (scienza) della preghiera ed è necessario continuare.
Considera come si studiano le lingue, per esempio. Prima si studiano le parole e le frasi dal manuale. Ma questo non basta, bisogna continuare, e raggiungere davvero il punto in cui possiamo correttamente formare delle frasi in una data lingua senza l’ausilio del libro di testo. Lo stesso capita con l’opera della preghiera.
Per prima cosa, segui la regola di preghiera con i libri di preghiera.
Quando ci abituiamo a pregare con i libri di preghiera, si può iniziare a pregare usando preghiere già scritte dateci dal Signore e dai Santi Padri che riuscirono nella preghiera. Non dovremmo, però, limitarci a ciò, dobbiamo continuare, ed essendoci abituati a chiedere aiuto a Dio con la mente e il cuore, dobbiamo tentare di ascendere a Lui.
Dobbiamo lottare per raggiungere il punto in cui la nostra anima inizia da solo a parlare, per così dire, in una conversazione orante con Dio e, da sola, ascende a Lui e si apre a Lui e confessa ciò che è in essa e ciò che desidera.
All’anima deve essere insegnato come ascendere a Dio e come aprirsi a Lui. Ti illustrerò brevemente come bisogna procedere al fine di riuscire in quest’arte.
L’abilità di pregare con pietà, attenzione e sentimento secondo un libro di preghiera conduce a questo livello più elevato di preghiera. Allo stesso modo in cui l’acqua fuoriesce da un vaso che è riempito troppo, così l’anima che è riempita di sentimenti santi attraverso la preghiera, inizia, da se stessa, a traboccare la sua preghiera a Dio. Ma per fare ciò, ci sono tappe particolari che ogni persona, che avanza su questo cammino, deve fare.
Perché, chiedi, succede che qualcuno preghi per tanti anni con un libro di preghiere eppure non ha ancora la preghiera nel cuore? Credo che la ragione sia che le persone trascorrano troppo poco tempo a innalzarsi verso Dio quando finiscono la loro regola, e altre volte non ricordano Dio. Per esempio, finiscono le preghiere mattutine, e pensano che la loro relazione con Dio si è compiuta; poi passano tutta la giornata al lavoro, e non pensano a Dio. Quando alla sera, il pensiero ritorna loro, essi devono immediatamente mettersi in piedi a pregare e completare la loro regola serale.
Tappe successive
In questo caso, succede che anche se il Signore concede a una persona sentimenti spirituali nel momento della preghiera mattutina, il trambusto e i pensieri del giorno li sommergano. Di conseguenza, succede che uno non sente spesso di pregare, e non riesce nemmeno a controllarsi un po’ per alleggerire il cuore. In una tale atmosfera, la preghiera si sviluppa e matura poco. Questo problema (non è forse onnipresente?) deve essere corretto, vale a dire, bisogna che l’anima non offra petizioni a Dio solo quando prega, ma durante l’intero arco del giorno, più volte possibile, bisogna che si ascenda sempre verso di Lui e si rimanga in Lui.
Prima tappa: invoca Dio più spesso
Per iniziare questo compito, bisogna prima, durante la giornata, invocare Dio più spesso, anche solo con poche parole, secondo le necessità e il lavoro del giorno.
Per esempio, per iniziare qualsiasi cosa, di’ “Benedici, Signore!”. Quando finisci qualcosa, di‘ “Gloria a Te, Signore”, e non solo con le labbra, ma anche con sentimento nel tuo cuore.
Se sorgono le passioni, di’ “Salvami, Signore, annego!”. Se sopraggiungono le tenebre di pensieri che ti molestano, grida: “Libera la mia anima dalla prigione!”
Se si presentano azioni disoneste e il peccato ti spinge verso di loro, prega “Mostrami, Signore, la via”, oppure “Non farmi inciampare”.
Se il peccato ti tiene in ostaggio e ti porta alla disperazione, grida con la voce del pubblicano, “Dio, abbi compassione di me, peccatore”. Fa’ questo in ogni circostanza o semplicemente di’ spesso “Signore, abbi compassione”, “Santissima Madre di Dio, salvaci”, “Santo angelo custode, proteggimi”, o altre simili parole.
Recita tali preghiere più spesso possibile, sforzandoti sempre di far nascere queste parole sempre dal cuore, come fossero spremute. Quando facciamo questo, ascenderemo spesso verso Dio nei nostri cuori, facendo numerose petizioni e preghiere. Questa aumentata frequenza porterà l’abitudine della conversazione mentale con Dio.
Seconda tappa: Attribuisci ogni cosa alla Gloria di Dio
Perché l’anima possa iniziare a chiedere aiuto in questo modo, bisogna prima insegnare all’anima ad attribuire ogni cosa alla Gloria di Dio, tutte le sue opere, sia grandi che piccole. Questo è il secondo modo di insegnare all’anima di rivolgere se stessa in direzione di Dio più spesso durante il giorno, perché se ci applichiamo a compiere il comandamento apostolico, cioè, di fare tutte le cose a gloria di Dio, anche “se mangiamo o beviamo” (1Cor 10,31), allora ricorderemo incessantemente Dio in tutto ciò che facciamo. Il nostro ricordo di Dio sarà realizzato non con negligenza, ma con accortezza, così che in alcun caso agiremo in maniera sbagliata e offenderemo Dio con alcuna azione.
Ciò ci aiuterà a rivolgere noi stesso verso Dio con timore, chiedendo con orazioni aiuto e comprensione. Dal momento che quasi sempre facciamo qualcosa, rivolgeremo, dunque, sempre noi stessi a Dio in preghiera. Di conseguenza, si svilupperà nelle nostre anime l’arte dell’innalzare il cuore in uno stato di preghiera incessante a Dio.
Perché l’anima faccia tutte le cose come devono essere fatte, cioè a gloria di Dio, bisogna prepararsi dal mattino presto, dall’inizio del giorno, prima che “l’uomo esca alla sua opera e al suo lavoro fino alla sera” (Sal 104,23).
Terza tappa: Contemplazione di Dio
Questa inclinazione porta alla contemplazione di Dio, e questo è il terzo modo di insegnare all’anima di volgersi frequentemente verso Dio. La contemplazione di Dio è la pia riflessione sulle proprietà e azione divine e sulla nostra necessaria risposta a esse. Significa riflettere sulla bontà, il giusto giudizio, la saggezza, l’onnipotenza, l’onnipresenza, l’onniscenza di Dio, sulla creazione, sull’opera della Salvezza nel nostro Signore Gesù Cristo, sulla grazia e la parola di Dio, sui santi misteri e sul Regno dei Cieli. Se inizi a riflettere su una di queste cose, la tua anima sarà immediatamente colma di pii sentimenti verso Dio.
Considera, per esempio, la bontà di Dio, e capirai che sei circondato dalla misericordia di Dio, sia fisica che spirituale, e che dovresti essere una pietra per non buttarti ai piedi di Dio riversando sentimenti di gratitudine.
Considera, per esempio, l’onnipresenza di Dio, e capirai che sei sempre dinanzi a Dio, e Dio è sempre dinanzi a te, e dunque non puoi evitare di essere sempre colmo di pio timore.
Considera l’onniscienza di Dio, e capirai che nulla dentro di te è nascosto all’occhio di Dio, e allora sarai severamente attento ai movimento del tuo cuore e della tua mente, per non offendere in ogni modo Dio che tutto vede.
Considera la giustizia di Dio, e crederai che nemmeno una sola azione maligna resterà impunita. Perciò, farai di tutto per pentirti per i tuoi peccati con un cuore affranto e in pentimento di fronte a Dio.
Quindi, qualunque sia la proprietà o l’azione di Dio sulla quale rifletti, quella riflessione riempirà la tua anima con sentimenti e inclinazioni pie verso Dio. Allineerà tutta la tua sostanza umana verso Dio, ed è quindi il mezzo più diretto per insegnare all’anima ad ascendere verso Dio.
Il tempo migliore per far ciò è la mattina, quando l’anima non è ancora appesantita dalle tante preoccupazioni e dagli affanni del lavoro. In particolare, dunque, il momento migliore è quello dopo le preghiere mattutine. Finisci le tue preghiere, siediti, e con pensieri purificati dalla preghiera, inizia a pensare ora a un aspetto divino, e domani a un altro, e tendi la tua anima verso quest’aspetto. “Vieni”, diceva San Dimitri di Rostov, “vieni, santa contemplazione di Dio e facci immergere nella contemplazione delle grandi opere di Dio” ed egli attraversò mentalmente le opere della provvidenza e della creazione, o i miracoli di nostro Signore e Salvatore, o le sue sofferenze, o qualcos’altro, e riscaldò così il suo cuore e iniziò a riversare la anima in preghiera. Tutti possono fare lo stesso. L’opera in sé è piccola: bisogna solo desiderare di farlo e risolversi a farlo. Ma i frutti sono molti.
Sintesi
Ci sono tre maniere di insegnare all’anima ad ascendere in modo orante a Dio, oltre alla regola di preghiera:
1. Dedicare al mattino del tempo alla contemplazione di Dio;2. Attribuire ogni azione alla gloria di Dio, e3. Rivolgersi spesso a Dio con brevi preghiere giaculatorie.
Quando la contemplazione di Dio è sincera, essa lascia un profondo desiderio di pensare a Dio.
Pensare a Dio dona all’anima di poter ordinare attentamente tutte le sue azioni, interiori ed esteriori, e rivolgerle alla gloria di Dio. Al contempo, ciò crea uno stato nell’anima tale che spesso sarà mossa da giaculatorie oranti rivolte a Dio.
Queste tre cose (contemplazione di Dio, fare tutto a gloria di Dio e frequenti giaculatorie) sono le armi più efficaci della preghiera mentale e della preghiera del cuore. Ognuno di loro innalza l’anima a Dio. Colui che decide di praticare queste cose raggiunge rapidamente l’abitudine di ascendere a Dio nel suo cuore. Impegnarsi in queste tre cose porta alle vette. Più in alto si ascende, più ci si sentirà liberi, e più facilmente si respirerà. Quindi: più si fanno questi esercizi, più in alto l’anima salirà, e più in alto l’anima sarà, più liberamente pregherà.
La nostra anima, per natura, è la dimora del mondo divino superiore. La nostra anima dovrebbe sempre stare in questo mondo con i pensieri e i sentimenti del cuore. Ma il bagaglio dei pensieri mondani e le passioni attira l’anima verso il basso. Questi metodi separano, poco a poco, l’anima dalla terra, e poi la allontanano da essa. Quando hanno completamente allontanato l’anima dalla terra, l’anima vive felice nella sua propria regione, in alto.
Qui nel cuore e nella mente, e poi in reale sostanza, l’anima sarà degna di essere davanti al volto di Dio nei cori degli angeli e dei santi.
Possa Dio concedere ciò a tutti voi per mezzo della sua grazia. Amen.
San Teofane il Recluso

Iniziare a pregare (Teofane il Recluso)

La preghiera è la prima opera nella vita cristiana. Se per gli affari di tutti i giorni è vero il detto “vivi e impara”, tanto più esso si applica alla preghiera, che non si arresta mai ed è infinita.
Lasciatemi ricordare una saggia abitudine dei Santi Padri dell’antichità: quando si salutavano non si chiedevano come andava la salute né altre cose. Piuttosto si chiedevano: “Come va la preghiera?” L’attività della preghiera era considerata da loro come un segno della vita spirituale chiamandola “il respiro dello spirito”. Se il corpo respira, vive; se il respiro si ferma, la vita finisce. Così è per lo spirito.
Se pratica la preghiera, l’anima vive; senza preghiera, non c’è vita spirituale.
Tuttavia, non ogni atto di preghiera è vera preghiera. Stare in piedi davanti alle icone in casa, o venerarle qui in chiesa, non è ancora pregare, ma “l’equipaggiamento” della preghiera. Recitare preghiere, a memoria o da un libro, o ascoltare qualcuno recitarle non è ancora pregare, ma solo uno strumento o un metodo per ottenere e risvegliare la preghiera.
Pregare significa instillare nei nostri cuori pii sentimenti verso Dio, uno dopo l’altro – sentimenti di umiltà, sottomissione, gratitudine, dossologia, perdono, prostrazione sincera, conformità al volere di Dio ecc. Tutto il nostro sforzo dovrebbe far sì che, durante la nostra preghiera, questi sentimenti e sentimenti simili a questi colmino le nostre anime, così che il cuore non sia vuoto quando reciteremo le preghiere, o quando le orecchie ascolteranno e il corpo si curverà in prostrazione, ma ci saranno sentimenti verso Dio.
Quando questi sentimenti sono presenti, il nostro pregare è preghiera, e quando sono assenti, esso non è ancora preghiera.
Sembra che non ci sia niente più semplice e più naturale per noi che una preghiera in cui il cuore è sintonizzato con Dio. Ma in realtà non è sempre così per ognuno di noi.
Bisogna risvegliare e rafforzare uno spirito di preghiera, cioè bisogna allevare uno spirito orante.
Il primo mezzo per far ciò è leggere o ascoltare preghiere. Prega come dovresti, e risveglierai e rafforzerai certamente l’ascesa del tuo cuore verso Dio e entrerai in uno spirito di preghiera.
L’uso di libri di preghiera
Nei nostri libri di preghiera, ci sono preghiere dei Santi Padri – Efrem il Siro, Macario l’Egiziano, Basilio il Grande, Giovanni Crisostomo, e altri grandi uomini di preghiera. Colmati dallo spirito di preghiera, furono capaci di mettere in parole quello spirito vivente e di tramandarcelo. Quando entriamo in queste preghiere con attenzione e sforzo, allora quel grande e orante spirito entrerà a sua volta in noi. Gusteremo allora la potenza della preghiera.Dobbiamo pregare di modo che la nostra mente e il nostro cuore ricevano il contenuto delle preghiere che recitiamo.In questo modo l’atto di pregare diviene fonte di vera preghiera in noi.
Tre semplici istruzioni
Darò qui tre semplicissime istruzioni:
1. inizia sempre a pregare con perlomeno una piccola preparazione;2. non pregare trascuratamente, ma con attenzione e sentimento; e3. non iniziare a svolgere la tua attività subito dopo la preghiera.
Anche se la preghiera è una cosa abituale per noi, essa esige sempre preparazione. Cosa c’è di più abituale per coloro ce sanno leggere e scrivere che leggere e scrivere? Tuttavia, sedendoci a scrivere, non iniziamo subito, ma ci calmiamo prima di iniziare, almeno fino a quel punto in cui sentiamo che possiamo leggere e scrivere in una condizione di pace. Quanto più allora è necessaria una preparazione per l’opera della preghiera, specialmente quando ciò che abbiamo fatto prima della preghiera è di natura completamente diversa dalla preghiera stessa.
Prepararsi alla preghiera
Quindi, quando si inizia a pregare, al mattino o alla sera,
…stai un attimo in piedi, oppure siediti, e cerca in questo momento di concentrarti con il pensiero, scacciando da quest’ultimo ogni preoccupazione per attività od oggetti terreni;…richiama alla mente Colui al Quale tu stai pregando. Chi è Lui e chi sei tu, mentre ci accingi a iniziare la preghiera a Lui; …risveglia nell’anima il sentimento di umiltà e di timore reverenziale. Ricordati che sei di fronte a Dio nel tuo cuore.
Stando in maniera pia di fronte a Dio, tutta questa preparazione potrebbe sembrare piccola o insignificante, ma non ha affatto un piccolo significato. Questo è il principio della preghiera e chi ben principia è a metà dell’opera.
Iniziare a pregare
…stando davanti alle icone, fai alcune prostazioni e inizia a dire le usuali preghiere: “Gloria a te, o Dio, gloria a Te” poi “Re Sovraceleste, Paraclito, Spirito di verità…”
Non correre. Fai attenzione a ogni singola parola e fai in modo che il significato di ogni parola entri nel tuo cuore. Capisci quello che stai recitando e percepisci cosa stai capendo.
Non ci sono altre regole. Queste due – capire e percepire – hanno l’effetto di rendere la preghiera consona e fruttuosa. Per esempio quando reciti: “purificaci da ogni macchia” - percepisci la tua macchia, desidera di essere purificato, e chiedilo al Signore con piena speranza.
Quando reciti: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” – dimentica tutto nella tua anima, e avendo perdonato a ognuno ogni cosa nel tuo cuore, chiedi perdono per te stesso al Signore.
Quando reciti: “sia fatta la tua volontà” – nel tuo cuore abbandona del tutto la tua propria volontà nelle mani del Signore e sii sinceramente pronto ad affrontare, di buon cuore, ogni cosa che al Signore piacerà mandarti.
Se reciti ogni versetto delle tue preghiere in questo modo, allora starai veramente pregando.
Sviluppare la vera preghiera
Per facilitare lo sviluppo della vera preghiera, compi questi passi:
1) …tieni una regola secondo il consiglio del tuo padre spirituale – non più di quanto tu possa recitare in maniera non frettolosa in un giorno normale;
2) …diventa familiare con la preghiera della tua regola, accogli pienamente ogni parola e sentila, così che saprai in anticipo la predisposizione della tua anima mentre la leggerai. Sarebbe ancora meglio se imparassi a memoria le preghiere. Facendo questo tutte le tue preghiere saranno facili da ricordare e sentire…
3) …mantieni l’attenzione concentrata sulle parole della tua preghiera, sapendo in anticipo che la tua mente vagherà. Quando la tua mente vaga durante la preghiera, riportala indietro. Quando vaga un’altra volta, riportala indietro un’altra volta. Ogniqualvolta reciti una preghiera mentre i tuoi pensieri vagano (e quindi vuol dire che la reciti senza attenzione e senza sentimento), allora recitala di nuovo. Anche se la tua mente vaga più e più volte, tu recita la preghiera più e più volte fino a quando non l’avrai recitata del tutto con comprensione e sentimento. In questo modo, supererai questa difficoltà cosicché la prossima volta, forse, non ricapiterà, o se ricapiterà, sarà di minore intensità. Così bisogna comportarti quando la mente vaga.
4) …una parola o una frase particolare possono agire così grandemente sull’anima, che l’anima stessa non vuole più continuare con la preghiera, e anche quando le labbra continuano, la mente non fa che ritornare sul quella particolare parola che ha agito su di essa. In questo caso fermati, non recitare ulteriormente, ma resta su quella parola con attenzione e sentimento, e usa quella parola e i sentimenti generati da essa come preghiera per nutrire la tua anima. Non correre per uscire da questo stato. Se non ce la fai con il tempo, è meglio lasciar perdere la propria regola che disturbare questo stato orante. Questo sentimento potrebbe restare con te tutto il giorno come tuo angelo custode! Questa azione sull’anima, colma di grazia, durante la preghiera, significa che lo spirito di preghiera è stato interiorizzato e, di conseguenza, mantenere questo stato è il mezzo più augurabile per coltivare e rafforzare uno spirito di preghiera nel cuore.
5) …quando finisci le tue preghiere, non dedicarti subito al tuo lavoro, ma rimani e pensa almeno un po’ a ciò che hai appena terminato. Se, durante la preghiera, hai provato sentimenti particolari, conservali anche dopo che hai pregato. Se hai completato la tua regola in un vero spirito di preghiera, allora non vorrai andare rapidamente a dedicarti ad altra opera: questa è una proprietà della preghiera. I nostri antenati dissero, tornando da Costantinopoli: “colui che ha gustato cose dolci non ama più le cose amare”. Così succede con ogni persona che ha pregato bene. Bisogna riconoscere che gustare questa dolcezza della preghiera è il vero obiettivo della preghiera, e se pregare porta a uno spirito orante, allora è esattamente attraverso questo gustare.
Se seguirai queste poche regole, vedrai presto il frutto dello sforzo orante. Colui che le mette già in pratica, senza queste istruzioni, sta già gustando questo frutto.
Ogni pregare lascia nell’anima preghiera,la preghiera continua mette radice in questo modo,la pazienza in quest’opera crea uno spirito orante.
Possa Dio accordarti ciò per le preghiere della nostra signora Tuttapura, la Theotokos!
Ti ho dato delle istruzioni iniziali basilari sul modo di coltivare in te stesso uno spirito orante, cioè, come pregare in un modo appropriato al senso di preghiera, a casa al mattino e a sera e in chiesa. Ma non è tutto. C’è un altro metodo ed io, se Dio lo vorrà, ve lo indicherò domani. (prosegue)
San Teofane il Recluso

lunedì 16 maggio 2011

Il senso di chiedere misericordia

D: Non mi sento ancora a mio agio con tutto questo chiedere pietà…
R: Le persone che si avvicinano per la prima volta alla preghiera di Gesù spesso pensano: perché dovrei chiedere continuamente pietà a Dio? Non possiamo essere certi che ci ha già perdonati? Dobbiamo forse strisciare per terra?
Il problema, credo, sia che noi immaginiamo un prigioniero in un tribunale che chiede pietà al giudice. Sta al giudice stabilire se uccidere o liberare quest’uomo. La sola speranza dell’imputato è di umiliarsi e perorare la sua causa, e scongiurare il giudice di essere clemente.
Immaginati, piuttosto, l’uomo nella parabola di Gesù (Lc 10,30-37) che era stato derubato e picchiato sulla via di Gerico, poi lasciato mezzo morto. La sua impotenza era così estrema che non era nemmeno capace di chiedere pietà ai passanti, e il sacerdote e lo scriba passarono oltre, attraversando la strada. Tuttavia, il Samaritano lo vide e ne ebbe compassione, e lo salvò dalla morte.
Questo è il genere di “misericordia” che chiede la preghiera di Gesù. Non stiamo tentando di cavarci dagli impicci per un crimine ma piuttosto stiamo riconoscendo quanto l’infezione del peccato ci abbia danneggiato. Rivelando tutta l’intensità della nostra infermità al medico celeste, cerchiamo la sua compassionevole guarigione.
La parola ebraica è hesed, che ha il senso di amore paziente. Il profeta Hosea sposò una donna che era una prostituta. Sebbene lo avesse tradito molte volte, egli continuò a cercarla e a riportarla a casa. Questo è l’amore hesed, l’amore che tutto sopporta, un amore che è valoroso e irrompe nelle mura della filautìa e dell’orgoglio.
In greco, la parola è eleos, e molti nelle chiese d’occidente ancora pregano in greco “Kyrie, eleison” cioè “Signore, pietà”.
Nella chiesa dei primi secoli eleos doveva fare eco con elaion, che significa olio. Forse la tua esperienza con l’olio d’oliva potrebbe limitarsi all’insalata, ma nell’antico mondo mediterraneo, l’olio d’oliva era usato in un un’ampia gamma di situazioni e assolveva a funzioni essenziali. Uno stoppino messo in una lampada a olio poteva bruciare e illuminare una stanza. Le erbe medicinali erano combinate con l’olio d’oliva per la guarigione. Il Buon Samaritano “gli [all'uomo picchiato] fasciò le ferite, versandovi olio e vino” (quest’ultimo per le qualità antisettiche dell’alcool). L’olio d’oliva era anche un solvente per erbe per farne profumi. E ovviamente, era ed è un ottimo cibo: in una regione dove le risorse di grasso erano scarse, l’olio d’oliva era un alimento essenziale. Una quantità sufficiente di grasso nella dieta conferisce un colorito sano, e il salmista ringrazia Dio perché Egli dono “il vino che rallegra il cuore dell’uomo, l’olio che fa brillare il volto” (Salmo 104,15). Tutta questa eco poetica tra eleos e elaion contribuisce a un senso più pieno di “pietà”, rispetto all’italiano.
Credo che la maggior parte dei cristiani con i quali parlo non senta il bisogno di misericordia. Pensano al pentimento come a un iniziale gradino verso la salvezza, ma una volta che diventano seguaci di Gesù Cristo, una volta che si battezzano e vanno regolarmente in chiesa, si sentono pronti. Nell’Occidente contemporaneo, il pentimento è considerato come un’attività propedeutica alla vita in Cristo (quando lo si considera così…). In Oriente, il pentimento dura un’intera esistenza. La salvezza significa guarire dall’infermità del peccato: avremmo sempre a che fare con il peccato che ci infetta e dobbiamo sempre cercare di essere guariti a un livello ogni volta più profondo.
Frederica Mathewes-Greentradotto da: F.M.G., The Jesus Prayer, pp. 80-82
D’altra parte, la nostra traduzione del “Kyrie eleison” con “Signore abbi pietà”, anche se esatta quanto ai termini, non ne altera forse il senso pieno? Il termine pietà, in italiano, ha assunto una sfumatura leggermente peggiorativa; “quella persona mi fa pietà”, diciamo talvolta con commiserazione; e ci capita anche di respingere la pietà di qualcuno, segno d’orgoglio o di presunione o più ancora di impotenza ad amare: “Io non voglio la vostra pietà!”
Per i Padri la pietà di Dio è lo Spirito Santo, è il Dono del suo amore. “Signore abbia pietà” vuol dire: ”Tu che Sei, manda su di me, su tutti, il tuo Soffio, il tuo Spirito, e tutto sarà rinnovato; che la tua Misericordia, la tua Bontà sia su di me, su tutti; non guardare alla mia impotenza ad amarti, a respirare in te, fa’ rifiorire il mio desiderio, trasforma il mio cuore di pietra in cuore di carne…”
Jean-Yves Lelouptratto da J-Y.L., Esicasmo: che cos’è,come lo si vive, Gribaudi, pp.116-117
Pregare, è innanzitutto tendere la mano verso Dio per ricevere. L’uomo, diceva Sant’Ireneo, è per essenza ricettacolo della bontà di Dio. Occorre però che egli accetti questo ruolo umile e magnifico, e dichiari di accettarlo pregando prima di ricevere e ringraziando dopo aver ricevuto: due gesti che nascono dalla medesima disposizione interiore, quella della creatura indigente davanti al Creatore che è al contrario infinitamente ricco e senza alcuna indigenza [...] Ciò che per [i grandi asceti] è supremamente desiderabile è Dio stesso, la sua grazia, la sua benevolenza, la sua carità, la sua salvezza. Le loro frequenti invocazioni o supplici esclamazioni non fanno che dare una spontanea espressione a qualcosa che in loro è permanente: l’atteggiamento perenne del mendicante davanti al Signore del cielo e della terra, o quanto meno la costante convinzione della necessità di tale atteggiamento.
Il trattato di San Nilo lo esprime chiaramente: «Prega innanzitutto per ottenere le lacrime, per ammorbidire col lutto la durezza che è nella tua anima; e, dopo aver confessato le tue iniquità al Signore, chiedi a Lui il perdono». Qui siamo ben lontani dall’attaggiamento di chi invoca il Nome per risvegliare in sé le energie della vita divina. Si tratta di un uomo che si riconosce peccatore e che ha bisogno della misericordia del suo Signore per ritrovare la sua primitiva bellezza. In questo atteggiamento è sottesa tutta una teologia che vede in Dio il Creatore e nell’uomo la creatura; una teologia che designa Dio Redentore e Salvatore in Gesù Cristo, e l’uomo peccatore salvato in Cristo stesso.
Per avere l’essenziale della preghiera del cuore, occorre un nome del Salvatore che contenga un atto di fede nella sua qualità di Messia, di Figlio di Dio, di Dio, ossia un atto di adorazione e duna domanda di pietà, ossia un atto di penitenza. “Abbi pietà di me” significa anche “dammi il tuo Santo Spirito, che io possa vivere la vita stessa del Figlio rivolto al Padre fin dall’inizio, che io possa vivere quella vita Trinitaria che è insieme il Paradiso perduto ed il Regno che deve venire”.
Jean-Yves Leloup
tratto da J-Y.L., Esicasmo: che cos’è,come lo si vive, Gribaudi, pp.164-166

Frecce lanciate verso il Cielo

Il termine “preghiera scoccata” (come fosse una freccia) o giaculatoria fu coniato da Sant’Agostino per descrivere delle brevi preghiere che ebbero origine nella tradizione monastica copta tra il IV e il V sec. Il termine stesso giaculatoria, infatti, deriva dal latino jaculum che vuol dire dardo, freccia. Nella lettera 130, cap. X, si legge:
Dicono che in Egitto i fratelli fanno preghiere frequenti sì, ma brevissime, e in certo modo scoccate al volo [raptim iaculatas], affinché la tensione vigile e fervida, sommamente necessaria a chi prega, non svanisca e perda efficacia attraverso lassi di tempo un po’ troppo lunghi. E con ciò essi dimostrano che la tensione, come non dev’essere smorzata se non può durare a lungo, così non dev’essere interrotta subito se potrà persistere. Siano bandite dall’orazione le troppe parole ma non venga meno il supplicare insistente, sempre che perduri il fervore della tensione. Usare troppe parole nella preghiera è fare con parole superflue una cosa necessaria: il pregare molto invece è bussare con un continuo e devoto fervore del cuore al cuore di Colui al quale rivolgiamo la preghiera. Di solito la preghiera si fa più coi gemiti che con le parole, più con le lagrime che con le formule. Iddio pone le nostre lagrime al suo cospetto e il nostro gemito non è nascosto a lui, che tutto ha creato per mezzo del Verbo e non ha bisogno di parole umane.
Molto brevemente, le preghiere scoccate sono preghiere brevi composte da una sola frase che si prestano a una ripetizione ritmica che facilita la meditazione e la pace interiore. Spostando l’attenzione alla funzione contemplativa di mente e anima, le preghiere-freccia aiutano a potenziare la propria comunione con Dio e la propria accessibilità a tutte le benedizioni che discendono dalla Sua Grazia Divina: purificazione, virtù, conoscenza, protezione dagli inganni dei nostri avversari spirituali, guarigione dell’anima ecc.
Le preghiere-freccia/giaculatorie sono un tentativo pratico per realizzare il comandamento di San Paolo di “pregare incessantemente” (1Te 5,17) poiché possono essere facilmente memorizzate e ripetute nel cuore in qualasiasi circostanza e in qualsiasi momento.

Piccola raccolta di preghiere scoccate

O Dio,abbi pietà di me peccatore
Abba Ammonas (IV sec.) (Preghiera del pubblicano (Lu 18,13))

Signore Gesù Cristoabbi pietà di me
Abba Barsanufio (V-VI sec.)

Abbi pietà di me, o Dio nella tua grande misericordia,nella moltitudine delle tue compassioni cancella il mio delitto
Abba Lucio (V sec.) (Salmo 50,1)

Signore, come vuoi come sai abbi misericordia di me
Abba Macario il Grande (IV sec.)

Signore,aiutami
Abba Macario il Grande (IV sec.)

O Dio, vieni in mio aiuto;Signore, vieni presto ad aiutarmi
Abba Isacco (IV sec.) (Salmo 69,2)

Io ho peccato, perché sono uomo,ma tu che sei Dio,perdonami
Abba Apollo (IV sec.)

Signore Gesù Cristo salvami!
Abba Barsanufio (V-VI sec.)

Gesù aiutami
Abba Barsanufio (V-VI sec.)

Sovrano Gesù,proteggimi e vieni in aiuto alla mia debolezza
Abba Barsanufio (V-VI sec.)

Rinnovatore del tempo rinnova anche mee adornami ancora
Narses il Grande (IV sec.)

O Tu che non sei incline all’ira non adirarTi ma abbi misericordia della Tua creazione
San Michele Arcangelo
(nota: questa preghiera ci è stata trasmessa dal Sinassario copto nel giorno della commemorazione dell’Arcangelo Michele nel santo mese di Kiahk.)

Salvezza dei viaggiatori salvami e guidami al tuo Regno
Igumeno Yusif As’ad (1944-1993)

Come meditare

Allorché il Sig. X…, giovane filosofo francese, arrivò al Monte Athos, aveva già letto un certo numero di libri sulla spiritualità ortodossa, in particolare la Piccola Filocalia della preghiera del cuore e i Racconti di un pellegrino russo. Ne era stato sedotto senza esserne veramente convinto.Una liturgia, in rue Daru a Parigi, gli aveva ispirato il desiderio di trascorrere qualche giorno al Monte Athos, in occasione di una vacanza in Grecia, per saperne un po’ di più sulla preghiera e il metodo di orazione degli esicasti, questi uomini silenziosi in cerca di “esichia”, ossia di pace interiore.
Sarebbe troppo lungo raccontare dettagliatamente come giunse ad incontrare il padre Serafino, che viveva in un eremitaggio vicino a San Panteleimon (il Roussikon, come lo chiamano i Greci). Diciamo solo che il giovane filosofo era un po’ infastidito. Non trovava i monaci “all’ altezza” dei suoi libri.
Diciamo pure che, se aveva letto parecchio sulla meditazione e la preghiera, non aveva ancora pregato veramente, ne aveva praticato una qualche particolare forma di meditazione e, in fondo, ciò che egli chiedeva non era un discorso ulteriore sulla preghiera o sulla meditazione, ma una “iniziazione” che gli permettesse di viverle e conoscerle dal di dentro, per esperienza e non per sentito dire. Padre Serafino aveva una reputazione ambigua presso i monaci vicini. Alcuni l’accusavano di levitare, altri di latrare, altri ancora lo consideravano un contadino ignorante, altri come un autentico staretz ispirato dallo Spirito Santo, capace di dare consigli profondi e di leggere nei cuori.
Quando si arrivava alla porta del suo eremo, padre Serafino aveva l’ abitudine di osservare il nuovo venuto nel modo più sfacciato: dalla testa ai piedi, durante cinque minuti, senza rivolgere la minima parola. Coloro che non fuggivano di fronte all’esame potevano allora udire la sferzante diagnosi del monaco. ”Non e sceso al di sotto del mento”. “Non parliamone. Non è nemmeno entrato”. “Non è possibile, che meraviglia! É sceso già fino alle ginocchia”.
Egli parlava, ovviamente, dello Spirito Santo e della sua discesa più o meno profonda nell’uomo. Qualche volta nella testa, ma non sempre nel cuore o nelle viscere Giudicava così la santità di qualcuno, dal grado di incarnazione dello Spirito. Per lui, l’uomo perfetto, l’ uomo trasfigurato, era quello interamente abitato dalla Presenza dello Spirito Santo, dalla testa ai piedi. “Questo l’ho visto una sola volta, presso lo staretz Silvano. Lui, diceva, era veramente un uomo di Dio, pieno di umiltà e di maestà”.
Il giovane filosofo era ben lontano da tali traguardi: in lui lo Spirito Santo si era fermato, o piuttosto non aveva trovato passaggio che “fino al mento”. Quando chiese a Padre Serafino di parlargli della preghiera del cuore e dell’orazione pura secondo Evagrio, Padre Serafino cominciò a latrare. Ciò non scoraggiò il giovane. Insistette… Allora il monaco gli disse: “Prima di parlare di preghiera del cuore, impara a meditare come una montagna…” e gli indicò un’enorme roccia. “Chiedile come fa a pregare. Poi torna da me”.
Meditare come una montagna
Cominciò così per il giovane filosofo una vera iniziazione al metodo dell’orazione esicastica. La prima indicazione che gli venne data concerneva la stabilità.Un buon abbarbicamento al suolo. Effettivamente, il primo consiglio da darsi a chi vuole meditare non è di ordine spirituale, ma fisico: siediti.
Sedersi come una montagna vuol dire anche prendere peso: essere pesante di presenza. I primi giorni, il giovane faceva fatica a rimanere così, immobile, le gambe incrociate, il bacino leggermente più alto delle ginocchia (è in tale posizione che aveva trovato maggiore stabilità). Una mattina sentì realmente che cosa voleva dire “meditare come una montagna”.
Era là con tutto il suo peso, immobile.
Silenzioso, sotto il sole, era una cosa sola con la montagna. La sua nozione del tempo era completamente cambiata. Le montagne hanno un altro tempo, un altro ritmo. Essere seduto come una montagna è avere l’eternità davanti a sé e l’atteggiamento giusto per colui che vuole entrare nella meditazione; sapere che c’é l’eternità dietro, dentro e davanti a sé. Prima di costruire una chiesa, doveva esse re pietra, e su questa pietra (questa imperturbabile solidità della roccia) Dio poteva costruire la sua chiesa e del corpo dell’uomo fare il suo tempio. É così che comprendeva il senso della parola evangelica: “Tu sei pie tra e su questa pietra edificherò la mia chiesa”.
Rimase così parecchie settimane. La cosa più dura era passare ore e ore “a far niente”. Bisognava imparare di nuovo ad essere, semplicemente ad essere, senza scopo ne motivo. Meditare come una montagna era la meditazione stessa dell’Essere, “del semplice fatto di essere”, prima di ogni pensiero, di ogni piacere e di ogni dolore.
Padre Serafino lo andava a trovare ogni giorno, condividendo con lui i suoi pomodori e qualche oliva. Malgrado questo regime così frugale, il giovane sembrava aver preso peso. La sua andatura era più tranquilla. Pareva che la montagna gli fosse entrata nella pelle. Sapeva prendere tempo, accogliere le stagioni, mantenersi tranquillo e silenzioso come una terra a volte arida e dura, ma anche, certe volte, come un versante di collina che attende il raccolto. Parimenti, meditare come una montagna aveva modificato il ritmo dei suoi pensieri.
Aveva imparato a “vedere” senza giudicare, come se avesse dato a tutto ciò che cresce sulla montagna il “diritto di esistere”. Un giorno, alcuni pellegrini, impressionati dalla qualità della sua presenza, scambiandolo per un monaco gli chiesero una benedizione. Egli non rispose, imperturbabile come la pietra. Avendolo saputo, la sera stessa Padre Serafino comincio a bastonarlo di santa ragione…
Allora il giovane cominciò a lamentarsi. “Ti credevo diventato stupido come i ciottoli della strada… La meditazione esicastica ha il radicamento, stabilità della montagna, ma il suo fine non è di fare di te un ceppo morto bensì un uomo vivo”. Prese il giovane uomo per il braccio e lo condusse al fondo del giardino dove fra le erbe selvagge si poteva vedere qualche fiore.“Ora, non si tratta più di meditare come una montagna sterile. Impara a meditare come un papavero, ma non dimenticare per questo la montagna…”
Meditare come un papavero
È così che il giovane imparò a fiorire…
La meditazione e innanzi tutto un mettersi tranquillo, immobile, ed è ciò che la montagna gli aveva insegnato. Ma la meditazione e anche un “orientamento”, ed è ciò che gli insegnava ora il papavero. Volgersi verso il sole, volgersi dal più profondo di se verso la luce. Farne l’ aspirazione di tutto il proprio sangue, di tutta la propria linfa. Questo orientarsi verso il bello, verso la luce lo faceva talvolta diventare rosso come un papavero. Come se la “bella luce” fosse quella di uno sguardo che gli sorridesse e da lui attendesse qualche profumo… Dal papavero apprese ugualmente che, per persistere nel suo orientamento il fiore deve avere “lo stelo eretto”.
Cominciò allora a raddrizzare la colonna vertebrale.
Questo gli procurò qualche difficoltà, perché in certi testi della Filocalia aveva letto che il monaco doveva disporsi leggermente curvo. Qualche volta perfino con dolore. Lo sguardo volto verso il cuore e le viscere. Chiese spiegazioni al Padre Serafino. Gli occhi dello staretz lo guardarono con malizia: “Questo valeva per i robustissimi uomini di una volta. Erano pieni di energia e occorreva riportarli un poco all’umiltà della loro condizione umana. Curvarsi un po’ nel tempo della meditazione non gli faceva mica male… Tu piuttosto, aven dobisogno di energia, nel momento della meditazione raddrizzati, sii vigile, tienti diritto verso la luce, ma sii senza orgoglio… D’altronde, se osservi bene il papavero, esso t’insegnerà non soltanto la dirittura dello stelo , ma anche una certa flessibilità sotto le ispirazioni del vento e poi anche una certa umiltà…”
In effetti, l’insegnamento del papavero si trovava anche nella sua fugacità e fragilità. Bisognava imparare a fiorire, ma anche ad appassire. Il giovane comprese meglio le parole del profeta: “Ogni uomo è come l’erba, e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, appassisce il fiore… Le nazioni sono come una goccia di un secchio… I signori della terra sono appena piantati, appena i loro steli hanno messo radici nella terra… seccano e l’uragano li strappa via come paglia” (Is 40).
La montagna gli aveva dato il senso dell’ eternità, il papavero gli insegnava la fragilità del tempo: meditare e conoscere l’Eterno nella fugacità dell’istante, un istante diritto, bene orientato. In altre parole, fiorire il tempo che ci è dato di fiorire, amare il tempo che ci e dato di amare, gratuitamente, senza perché, senza per chi. Per che cosa fioriscono, i papaveri?
Imparò così a meditare “senza scopo ne interesse”, per il piacere d’essere e di amare la luce “L’amore è ricompensa a se stesso”, diceva san Bernardo.
“La rosa fiorisce perché fiorisce, senza perché”, diceva ancora Angelo Silesio. “É la montagna che fiorisce nel papavero, pensava il giovane. É tutto l’universo che medita in me. Possa io arrossire di gioia per tutta la durata della mia vita”. Senza dubbio questo era troppo. Padre Serafino cominciò a scuotere il filosofo e di nuovo lo prese per un braccio.
Lo trascinò per un sentiero scosceso fin sulla riva del mare, in una piccola insenatura deserta. “Smettila di ruminare come una mucca il buon significato dei papaveri. Abbi anche il cuore marino. Impara a meditare come l’oceano”.
Meditare come l’oceano
Il giovane si avvicinò al mare. Aveva acquisito un buon modo di stare seduto ed un portamento eretto. Era in buona positura. Che cosa gli mancava? Che cosa poteva insegnargli lo sciacquio delle onde? Si alzò il vento. Il flusso e il riflusso del mare si fecero più profondi e ciò risvegliò in lui il ricordo dell’oceano. In effetti, il vecchio monaco gli aveva pur consigliato di meditare “come l’ oceano” e non come il mare. Come aveva fatto ad indovinare che il giovane aveva passato lunghe ore in riva all’Atlantico, soprattutto la notte, e che già conosceva l’ arte di accordare il proprio respiro al grande respiro delle onde? Inspiro, espiro… poi: sono inspirato, sono espirato.
Mi lascio portare dal respiro, come ci si lascia portare dalle onde… Così, faceva il morto portato dal ritmo della respirazione oceanica. Ciò l’aveva condotto talvolta sull’ orlo di strani deliqui, ma la goccia d’acqua che una volta “si dileguava nel mare” oggi custodiva la propria forma, la propria coscienza. Era l’effetto della positura? Del suo radicamento nella terra? Non era più portato dal ritmo profondo della respirazione. La goccia d’acqua conservava la propria identità e tuttavia sapeva di “essere una” con l’oceano. É così che il giovane uomo imparò che meditare è respirare profondamente, è abbandonare al suo corso il flusso e riflusso del respiro.
Apprese ugualmente che, se vi erano delle onde in superficie, il fondo dell’oceano rimaneva tranquillo. I pensieri vanno e vengono come schiuma, ma il fondo dell’essere rimane immobile. Meditare a partire dalle onde che siamo per lasciarsi annegare e mettere radici nel fondo dell’ oceano. Tutto ciò diventava in lui ogni giorno un poco più vitale, ed egli ricordava le parole di un poeta che l’avevano segnato al tempo della sua adolescenza: “L’esistenza e un mare pieno di onde. Di questo mare la gente comune non percepisce che le onde. Guarda come dalle profondità del mare innumerevoli onde salgono in superficie, mentre il mare rimane nascosto nelle onde”. Oggi il mare gli sembrava meno “nascosto nelle onde”, l’unicità di tutte le cose gli pareva più evidente, e ciò non aboliva la molteplicità. Egli aveva minor bisogno di contrapporre il fondo e la forma, il visibile e l’invisibile.
Tutto costituiva l’oceano unico della vita.
Nel fondo del suo respiro non c’era forse la “Ruah”? Il “pneuma”? Il grande respiro di Dio?
“Colui che ascolta attentamente la sua respirazione, gli disse allora il vecchio monaco Serafino, non e lontano da Dio. Ascolta chi giace al limite della tua aspirazione. Ascolta chi si trova al principio della tua inspirazione”. Effettivamente c’erano al principio e alla fine di ogni respiro alcuni secondi di silenzio, più profondi del flusso e riflusso delle onde, c’era qualcosa che l’oceano sembrava portare…
Meditare come un uccello
“Essere in una buona positura, avere un portamento eretto verso la luce, respirare come l’oceano non è ancora la preghiera esicastica, gli disse Padre Serafino. Tu devi imparare ora a meditare come un uccello”, e lo condusse in una piccola cella accanto al suo eremitaggio dove vivevano due tortore. Il tuba re di quelle bestioline gli parve dapprima incantevole, ma, dopo poco, cominciò a infastidirlo. In effetti sceglievano sempre il momento in cui cadeva dal sonno per tubare le più tenere effusioni. Chiese al vecchio monaco che cosa significava tutto ciò e se quel la commedia doveva durare ancora a lungo. La montagna, l’oceano, il papavero li aveva accettati suo malgrado (per quanto si chiedesse che cosa vi fosse di cristiano in tutto ciò), ma proporgli adesso questo languido volatile come maestro di meditazione, era proprio troppo!
Padre Serafino gli spiegò che nell’Antico Testamento la meditazione è espressa con dei termini della radice “haga”, reso più sovente in greco da mélété – meletan, e in latino da meditari – meditatio. Nel suo senso primitivo la radice di questo termine significa “mormorare a mezza voce”. É usata parimenti per designare grida d’ animali, ad esempio il ruggito del leone (Is 31, 4), il pigolio della rondine e il canto della colomba (Is 38, 14), ma anche il brontolio dell’orso. “Al monte Athos non ci sono orsi. É per questo che ti ho condotto dalle tortore, ma l’insegnamento è il medesimo. Bisogna meditare con la gola, non soltanto per accogliere il respiro, ma anche per mormorare, giorno e notte, il nome di Dio….
Quando sei felice, canterelli, quasi senza accorgertene qualche volta mormori parole senza significato, e quel mormorio fa vibrare tutto il tuo corpo di gioia semplice e serena. Meditare e mormorare come la tortora, lasciar salire in te quel canto che viene dal cuore, così come hai imparato a lasciar salire in te il profumo che viene dal fiore… Meditare, è respirare cantando
Senza troppo soffermarti per il momento al suo significato, ti propongo di ripetere, mormorare, canticchiare ciò che è nel cuore di tutti i monaci dell’Athos: “Kyrie eleison, Kyrie eleison…”.
Ciò non piaceva troppo al giovane filosofo. In occasione di certe messe di matrimonio o di funerale aveva già sentito quell’invocazione, tradotta con “Signore pietà” Il monaco Serafino sorrise: “Sì, questo e uno dei significati di tale invocazione, ma ve ne sono ben altri. Vuol dire anche: “Signore, manda il tuo Spirito…! Che la tua tenerezza sia su di me e su tutti, che il tuo Nome sia benedetto”, ecc. Ma non cercare troppo di impadronirti del significato di questa invocazione, esso ti si rivelerà da sé.
Per il momento sii sensibile e attento alla vibrazione che essa suscita nel tuo corpo e nel tuo cuore. Cerca di armonizzarla quietamente con il ritmo del tuo respiro. Quando i pensieri ti tormentano, ritorna dolcemente a quell’invocazione, respira più profondamente , tieniti diritto e immobile e incomincerai a conoscere un inizio di “esichia”, la pace che Dio dà senza lesinare a coloro che lo amano”.
A capo di alcuni giorni il “Kyrie eleison” gli divenne un poco più familiare. Lo accompagnava come il ronzio accompagna l’ape quando fa il miele. Non sempre lo ripeteva con le labbra. Allora il ronzio diventava più interiore e la sua vibrazione più profonda.
Il “Kyrie eleison”, di cui aveva rinunziato a “cogliere” il senso, lo conduceva talvolta in un silenzio sconosciuto. Si ritrovava nello stato d’animo dell’apostolo Tommaso quando vide il Cristo risorto: “Kyrie eleison” “mio Signore e mio Dio”.
L’invocazione lo immergeva poco a poco in un clima di rispetto intenso verso tutto ciò che esiste, ed anche di adorazione per ciò che è nascosto e si trova alla radice di ogni esistenza. Padre Serafino allora gli disse : “Adesso non sei lontano dal meditare come un uomo. Debbo insegnarti la meditazione di Abramo”.
Meditare come Abramo
Fin qui l’insegnamento dello staretz era di ordine naturale e terapeutico.
Gli antichi monaci, secondo la testimonianza di Filone Alessandrino, erano in effetti dei “terapeuti”. Il loro ruolo, prima di condurre all’illuminazione , era di guarire la natura, di metterla nelle migliori condizioni per poter ricevere la grazia, poiché la grazia non contraddice la natura, ma la reintegra e la completa. É ciò che faceva il vecchio monaco con il giovane filosofo insegnandogli un metodo di meditazione che certi avrebbero potuto considerare come “puramente naturale”. La montagna, il papavero, l’oceano , l’uccello. Altrettanti elementi della natura che ricordano all’uomo che, prima di andare lontano, deve cogliere i diversi livelli dell’essere, o meglio i diversi regni di cui e composto il macrocosmo. Il regno minerale , il regno vegetale, il regno animale… L’uomo ha perso il contatto con il cosmo, con la roccia, con gli animali e questo non senza provocare in lui ogni sorta di malesseri: malattie, insicurezza, ansietà. Egli si sente “di troppo”, estraneo al mondo.
Meditare e innanzi tutto entrare nella meditazione e nella lode dell’universo, perché, dicevano i padri, “tutte queste cose sanno pregare prima di noi” L’uomo è il luogo dove la preghiera del mondo prende coscienza di se stessa. L’ uomo esiste per dare un nome a ciò che le creature lodano balbettando… Con la meditazione di Abramo, noi entriamo in una nuova e più alta coscienza che si chiama fede, ossia l’adesione dell’intelligenza e del cuore a quel “Tu” che É, che traspare nella molteplice intimità di tutti gli esseri. Tali sono l’esperienza e la meditazione di Abramo: dietro il fremito delle stelle vi è qualcosa di più che le stelle, una Presenza difficile da nominare, che nessuno può chiamare per nome e che tuttavia ha tutti i nomi….
È qualcosa di più dell’ universo e che tuttavia non può essere compreso se non nell’ universo. La differenza fra Dio e la natura è la differenza che vi è fra l’azzurro del cielo e l’azzurro di uno sguardo… Al di là di tutti gli azzurri Abramo era alla ricerca di quello sguardo…
Dopo avere appreso la positura tranquilla e immobile, l’abbarbicamento, il positivo orientamento verso la luce, il respiro degli oceani, il canto interiore, il giovane era in tal modo invitato ad un risveglio del’cuore. “Ecco, tutt’un tratto sei qualcuno”. É proprio del cuore, effettivamente, personalizzare ogni cosa e, in questo caso, personalizzare l’Assoluto, la Sorgente di tutto ciò che vive e respira, darle un nome, chiamarla “Mio Dio, Mio Creatore” e camminare alla sua presenza. Per Abramo meditare e mantenere il contatto con questa Presenza sotto le apparenze più svariate. Questa forma di meditazione entra nei dettagli concreti della vita di ogni giorno.
L’episodio della quercia di Mamre ci mostra Abramo “seduto all’entrata della tenda, nell’ora più calda del giorno”, e là accoglie tre stranieri che si rivelano essere degli inviati di Dio “Meditare come Abramo, diceva Padre Serafino, è praticare l’ospitalità; il bicchiere d’acqua che dai a colui che ha sete non ti allontana dal silenzio ti avvicina alla sorgente”. “Meditare come Abramo non soltanto risveglia in te la pace e la luce, ma anche l’Amore per tutti gli uomini”. E Padre Serafino gli lesse quel famoso passo dal libro della Genesi. dove si parla dell’intercessione di Abramo. Abramo stava davanti a YHWH, “Colui che è – che era – che sarà” Gli si avvicinò e disse: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?…” Poco a poco Abramo dovette ridurre il numero dei giusti perché Sodoma non venisse distrutta. “Non si adiri il mio Signore se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci…” (Gen 18, 23).
Meditare come Abramo vuol dire intercedere per la vita degli uomini, non ignorare nulla della loro putredine e tuttavia “mai disperare della misericordia di Dio”. Questo genere di meditazione libera il cuore da ogni giudizio e da ogni condanna, sempre e ovunque; pur di fronte a infiniti orrori egli chiede sempre perdono e benedizione. Meditare come Abramo conduce ancora più lontano. Le parole facevano fatica a uscire dalla gola del Padre Serafino, come se questi avesse voluto risparmiare al giovane un’esperienza attraverso la quale lui stesso era stato costretto a passare e che ridestava nella sua memoria un sottile tremore: “Ci può condurre fino al Sacrificio…” egli citò il passo della Genesi in cui Abramo si mostra pronto a sacrificare il proprio figlio Isacco.
“Tutto appartiene a Dio, continuò in un mormorio Padre Serafino. Tutto e suo, viene da lui ed e per lui”; meditare come Abramo ti conduce alla totale spoliazione di te stesso e di ciò che hai di più caro… qual cosa a cui tieni particolarmente, con cui identifichi il tuo io”… Per Abramo si trattava del suo unico figlio; se tu sei capace di questo dono, di questo totale abbandono, di questa infinita fiducia in Colui che trascende ogni ragione e ogni buon senso, tutto ti sarà reso al centuplo: “Dio provvederà”.
Meditare come Abramo e avere nel cuore e nella coscienza “nient’ altro che Lui”. Quando salì in cima alla montagna Abramo pensava solo a suo figlio.
Quando ridiscese non pensava che a Dio. Passare attraverso la vetta del sacrificio e scoprire che niente appartiene all’”io”. Tutto appartiene a Dio.
È la morte dell’ego e la scoperta del “Sé”. Meditare come Abramo è aderire con la fede a Colui che trascende l’universo, è praticare l’ospitalità è intercedere per la salvezza di tutti gli uomini. È dimenticare se stessi è spezzare i legami, anche i più legittimi, per scoprire se stessi, il nostro prossimo e tutto l’universo abitato dalla presenza infinita di “Colui che, solo, È”.
Meditare come Gesù
Padre Serafino si mostrava sempre più discreto. Sentiva i progressi che il giovane faceva nella meditazione e nella preghiera. Parecchie volte lo aveva sorpreso, il viso bagnato di lacrime, a meditare come Abramo, intercedendo per tutti gli uomini, “Mio Dio, mia misericordia che cosa sarà dei peccatori…?” Il giovane un giorno venne a lui e gli chiese: “Padre, perchè non mi parlate mai di Gesù? Qual era la sua preghiera personale, la sua forma di meditazione? Nella liturgia, nei sermoni non si parla che di Lui. Nella preghiera del cuore, quale se ne parla nella Filocalia, occorre invocare il suo nome. Perchè non me ne dite nulla?”
Padre Serafino sembrò turbato. Come se il giovane gli domandasse qualcosa di indecente, come se fosse costretto a rivelargli il suo segreto. Più grande è la rivelazione che si è ricevuta, più grande dev’essere l’umiltà per trasmetterla. Indubbiamente egli non si sentiva abbastanza umile: “Questo, soltanto lo Spirito Santo puo insegnartelo. “Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Lc lO, 22). Devi diventare figlio per pregare come il Figlio e avere con Colui che Egli chiama suo e nostro Padre le stesse relazioni d’ intimità, e questa e opera dello Spirito Santo. Egli ti ricorderà tutto ciò che Gesù ha detto. Il Vangelo diventerà vivo in te e ti insegnerà a pregare nel modo giusto” Il giovane insiste “Ditemi ancora qualcosa”. Il vecchio gli sorrise “Ora, disse, farei meglio a latrare. Ma tu prenderesti ancora questo come un segno di santità.
È meglio che io ti dica le cose semplicemente. “Meditare come Gesù è ricapitolare tutte le forme di meditazione che ti ho insegnato fino ad ora. Gesù è l’uomo cosmico. Sapeva meditare come la montagna, come il papavero, come l’oceano, come la tortora. Sapeva anche meditare come Abramo. Il suo cuore senza limiti amava persino i suoi nemici, i suoi carnefici: “Padre, perdonali perche non sanno quello che fanno”. Praticava l’ospitalità verso malati, peccatori, paralizzati, prostitute… La notte si ritirava a pregare, nel segreto, e là mormorava come un bambino “Abbà” che vuol dire “papà”… Ti potrà sembrare irriverente chiamare “papa” il Dio trascendente, infinito, nnominabile! Ti potrà sembrare quasi puerile, eppure questa era la preghiera di Gesù, e in questa semplice parola “Abbà” era detto tutto. Il cielo e la terra diventavano terribilmente vicini. Dio e l’uomo formavano una cosa sola… bisogna forse aver chiamato nella notte “papa” per capire… Ma può darsi che, oggi, queste intime relazioni di un padre e di una madre con il loro figlio non dicano più niente. Forse e una cattiva immagine…
È per questo che preferirei non dirti nulla, non usare immagini e aspettare che lo Spirito Santo metta in te i sentimenti e la conoscenza che erano in Cristo Gesù e che questo “Abbà” non rimanga a fior di labbra ma venga dal profondo del cuore. Quel giorno comincerai a comprendere che cosa è la preghiera e la meditazione degli esicasti”.
Ed ora, va’ !
Il giovane rimase ancora alcuni mesi sul Monte Athos. La preghiera di Gesù lo trasportava negli abissi, talvolta al limite di una certa “follia”. “Non più io vivo, e Cristo che vive in me”, poteva dire con san Paolo. Delirio di umiltà, d’intercessione, di desiderio “che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla piena conoscenza della verità”. Diventava Amore, diventava fuoco. Il roveto ardente non era più, per lui, una metafora ma realtà: “Ardeva eppure non Si consumava”. Strani fenomeni di luce succedevano nel suo corpo. Certi dicevano di averlo visto camminare sull’acqua o di averlo sorpreso mentre stava seduto, immobile, a trenta chilometri da terra…Questa volta padre Serafino latrò: “Basta! Adesso, va!”, e gli intimò di lasciare l’Athos e di ritornare a casa; là avrebbe visto che cosa restava delle sue belle meditazioni esicastiche.
Il giovane partì. Ritornò in Francia.
Lo trovarono piuttosto smagrito e non videro niente di molto spirituale nella sua barba sporca e nella sua aria trasandata… Ma la vita della città non gli fece dimenticare l’insegnamento dello staretz.
Quando si sentiva troppo agitato per la tirannia del tempo, andava a sedersi come una montagna sulla terrazza di un caffe. Quando sentiva in se l’orgoglio, la vanità, si ricordava del papavero, “ogni fiore appassisce”, e nuovamente il suo cuore si volgeva verso la luce che non muore.
Quando la tristezza, la collera, il disgusto invadevano la sua anima, respirava profondamente, come un oceano, riprendeva fiato nel respiro di Dio, invocava il suo Nome e mormorava: “Kyrie eleison…”
Quando notava la sofferenza degli uomini, la loro cattiveria, e sentiva la propria impotenza a cambiare le cose, si ricordava della meditazione di Abramo. Quando era calunniato e di lui si diceva ogni sorta di malignità, era felice di meditare come Cristo… Esteriormente, era un uomo come gli altri. Non cercava di avere “l’aria di un santo”… Aveva perfino dimenticato di praticare il metodo d’orazione esicastica, semplicemente cercava di amare Dio, istante per istante, e di camminare alla sua Presenza…
Jean-Yves Lelouptratto da J-Y.L., Esicasmo: che cos’è,come lo si vive, Gribaudi, pp.9-25

Pavel Evdokimov spiega il mistero dell'esistenza

1. LA MORTE
Il silenzio dei morti pesa sui vivi. Tuttavia, da Cristo in poi la morte è cristiana, non è più un intruso, ma la grande iniziatrice. “Regina dei terrori”, secondo Giobbe, la morte ferma le profanazioni abituali e le dimenticanze, colpisce con il suo avvenimento irreversibile. Non ha un’esistenza in essa stessa, non è la vita che è un fenomeno della morte, ma è la morte che è un fenomeno provvisorio della vita. Come la negazione è posteriore alla dichiarazione, è un fenomeno secondario e principalmente parassitario. Dopo la rottura dell’equilibrio iniziale, la morte diventa il destino “naturale” dei “mortali” pur essendo contro natura, cosa che spiega l’angoscia dei morenti. L’ampiezza del male si misura dalla potenza dell’antidoto. La ferita è così profonda, il male è così virulento, che esigono una terapeutica propriamente divina ed è il tragico della morte di Dio e, al suo seguito, il nostro passaggio con la purificazione della morte. L’incarnazione del Verbo è già l’avviamento della Risurrezione. Il Verbo si unisce alla natura “morta” per vivificarla e curarla. “Prese un corpo capace di morire affinché, soffrendo per tutti in questo corpo in cui era venuto, riducesse a nulla il Maestro della morte”[1]. “Si è avvicinato alla morte fino a prendere contatto con lo stato di cadavere e fornire alla natura il punto di partenza della risurrezione”[2]. “Ha distrutto la potenza della mortalità”[3].
La Bibbia non insegna alcuna immortalità naturale. La risurrezione di cui parla l’Evangelo non è affatto la sopravvivenza dell’anima ma la penetrazione di tutto l’essere umano con le energie vivificanti dello Spirito Divino. Il Credo lo confessa: “Attendo la risurrezione dei morti”, e “Credo nella risurrezione della carne”. I santi vivono la morte con gioia, nella gioia di nascere al mondo di Dio. San Serafino di Sarov insegnava il “morire in allegria”. È per questo che indirizzava a tutti questo saluto pasquale: “Gioia mia, Cristo è risorto”, la morte è inesistente e la vita regna. La morte per san Gregorio di Nissa è cosa buona e san Paolo lo dice in una visione stupefacente: Tutte le cose son vostre, sia la vita, sia la morte (1Cor 3, 22), le due sono allo stesso titolo, i regali di Dio messi a disposizione dell’uomo.
Assumendola interamente, l’uomo è sacerdote della sua morte, egli è ciò che fa della sua morte. L’estrema unzione introduce in questo sacerdozio ultimo, offre “un olio di gioia”, suscita l’esaltazione del cuore sopra il corpo in agonia. Diadoco nota che le malattie prendono il posto del martirio. Quando, di fronte al boia che la morte sostituisce, l’uomo può chiamarla “nostra sorella la morte” e confessare il Credo, anticipa e vive quest’evidenza di essere passato dalla morte alla vita. I grandi spirituali dormivano nella loro bara come in un letto nuziale e manifestavano un’intimità fraterna con la morte che è soltanto un ultimo passaggio-Pasqua. Se la saggezza secondo Platone insegna l’arte di morire, solo la fede cristiana apprende come occorre morire nella risurrezione. Infatti, la morte è interamente nel tempo, dunque è dietro di noi; davanti, si trova ciò che è stato già vissuto nel battesimo: la “piccola risurrezione”, e nell’eucaristia: la vita eterna. Colui che mi ascolta ha la vita eterna, non viene in giudizio, è già passato dalla morte alla vita(Gv 5, 24, e Col 2, 12).
2. IL PASSAGGIO DI PURIFICAZIONE E L’ATTESA CELESTE
La morte è chiamata liturgicamente “dormizione”: c’è una parte dell’essere umano che si trova in stato di sonno, sono le facoltà psichiche attaccate al corpo, ed una parte che resta cosciente, sono le facoltà psichiche attaccate allo spirito. Molti passaggi del Nuovo Testamento mostrano sufficientemente che i morti possiedono una coscienza perfetta. La vita, passando per la morte, continua e giustifica la preghiera liturgica per i morti. Se l’esistenza tra la morte e l’ultimo giudizio può essere chiamata “il purgatorio”, quest’ultimo non è un luogo, ma uno stato intermedio.
L’Oriente insegna la purificazione dopo la morte, non come una condanna da scontare, ma come il destino assunto e vissuto fino alla fine, con la speranza di una guarigione progressiva al termine. L’attesa collegiale di tutti i morti è creatrice a causa della sua ricettività. La preghiera dei vivi, gli uffici della Chiesa, il ministero per intercessione degli angeli intervengono e continuano l’opera di salvezza del Signore. Non è tanto l’errore che si ripara quanto la natura che si ripara, che trova la sua integrità e la “salute” del Regno. Ciò che spiega l’immagine frequente del passaggio dei morti dalle “stazioni di pedaggio” (“telonia”), dove si lascia ai demoni ciò che appartiene loro e dove ci si libera conservando soltanto ciò che è del Signore. Non si tratta di torture né di fiamme, ma della maturazione mediante lo spogliamento di qualsiasi macchia che pesa sullo spirito.
La parola “eternità” in ebraico, è presa dal verbo alam, che vuol dire “nascondere”. Dio ha avvolto di oscurità il destino dell’oltretomba e non si tratta affatto di violare il segreto divino. Tuttavia, il pensiero patristico afferma chiaramente che il tempo tra la morte ed il giudizio non è vuoto e, come dice sant’Ireneo, le anime “maturano”[4]. Sant’Ambrogio parla del “luogo celeste” dove dimorano le anime. Secondo la tradizione, è “il terzo cielo” di cui parla san Paolo, il cielo delle parole ineffabili (2 Cor 12, 2-4). È ovvio che non si tratta affatto di nozioni spaziali. È un linguaggio simbolico, dunque misterioso per essenza. Gli approcci del Regno non designano dei luoghi ma degli stati e dei mondi spirituali. Secondo san Gregorio di Nissa, le anime accedono al mondo intelligibile, alla città delle gerarchie celesti sopra il cielo, il che significa al di sopra delle dimensioni conosciute. L’Eden è diventata il sagrato del Regno, chiamato anche “seno di Abramo”, “luogo di luce, di refrigerio e di riposo”[5].
Quest’ascensione spoglia dal peso del male e le anime purificate salgono da una dimora all’altra (le Mansiones di Ambrogio), da uno stato all’altro, si iniziano gradualmente al mistero dell’aldilà e si avvicinano al Tempio-Agnello. Le anime e gli angeli entrano nell’intercomunione preliminare ed al canto del Sanctus salgono insieme i gradini “della casa dell’Eterno”. È il santuario dove entra il Signore (Ebr 9, 24), dove “gli amici feriti dello Sposo”, i martiri ed i santi sono riuniti nella Communio sanctorum, attorno al cuore-agape del Teantropo. È ancora la vita degli spiriti disincarnati, avvolti come da un manto dalla presenza del Cristo la cui carne glorificata e radiante di luce compensa la nudità delle anime. I sensi diventati interni allo spirito captano il celeste.
È l’attesa attiva, in comunione di preghiera con la Chiesa che si veste di lino purpureo, delle opere dei santi che li seguono (Ap 14,13; 19,8). La parola:Dormo ma il mio cuore veglia (Ct 5,2) designa il sonno vigilante “della piccola risurrezione”. Pur superando i gradi, le anime attendono “il giorno del Signore”. È il mistero del Corpo tutto intero, “del covone legato dei grani raccolti”, poiché “c’è un solo corpo che attende la beatitudine perfetta”[6], ed è soltanto a questa totalità che l’abisso del Padre si apre. Lo sguardo di tutti si dirige verso la costituzione del Totus Christus, l’Avvento escatologico sfocia nel destino unico dell’Uomo ricostituito tutto intero in Cristo.
3. LA FINE DEL MONDO
La figura di questo mondo passa, ma colui che fa la volontà di Dio rimane in eterno (1Cor 7, 31; 1Gv 2, 17). Vi è ciò che scompare e vi è ciò che resta. L’immagine apocalittica parla del fuoco che rifonda e purifica la materia, ma questo passaggio è quello del limite. C’è uno iato. “L’ultimo giorno” non diventa un ieri e non avrà domani, non farà numero con gli altri giorni. La mano di Dio afferra il cerchio chiuso del tempo fenomenale e lo eleva ad uno orizzontale superiore[7]. Questo “giorno” chiude il tempo storico, ma esso stesso non appartiene al tempo; non si trova sui nostri calendari ed è per questo che non lo si può predire. “Dinanzi al Signore, un giorno è come mille anni” (Cf Sl 89, 4), si tratta qui di misure o di stati incomparabili. Questo carattere trascendente della fine è l’oggetto della Rivelazione e della fede.
4. LA PARUSIA E LA RISURREZIONE
La Parusia renderà evidente per tutti l’avvento folgorante del Cristo nella sua gloria. Ma non è nella storia che la Parusia sarà visibile ma oltre alla storia, cosa che presuppone il passaggio ad un altro eone: Tutti saranno trasformati (1Cor 15, 51) – I vivi che saranno ancora là saranno portati via su nuvole per incontrare il Signore nell’aria (1Tess 4, 17). Secondo san Paolo, c’è un’energia d’un granello di seme che Dio fa risorgere: è seminato un corpo naturale, risuscita un corpo spirituale (1Cor 15, 44) rivestito dell’immortalità e dell’immagine del celeste; Tutti usciranno al richiamo della voce. I testi escatologici presentano una densità simbolica che elimina ogni semplificazione e soprattutto ogni senso letterale. La parola impotente lascia posto alle immagini di una dimensione trascendente per il mondo. Il senso preciso ci sfugge completamente e ci invita ad “onorare in silenzio” la realtà di cui è stato detto: l’occhio non vide, l’orecchio non udì e non venne mai nel cuore dell’uomo ciò che il Signore ha preparato per quelli che lo amano (1Cor 2, 9).
La risurrezione è un’ultima soprelevazione. La mano di Dio afferra la sua preda e la solleva in una dimensione sconosciuta. Si può dire al massimo che lo spirito ritrova la totalità dell’essere umano, anime e corpi conservati perfettamente identici alla loro unicità. San Gregorio di Nissa parla del “sigillo”, dell’“impronta” che si rapporta alla forma del corpo (che è una delle funzioni dell’anima) e che permetterà di riconoscere il viso conosciuto. Il corpo sarà simile al corpo del Cristo risuscitato, cosa che vuol dire: di maggiore gravità e impenetrabilità. L’energia di repulsione che rende tutto opaco, impenetrabile, lascerà posto alla sola energia d’attrazione e di compenetrazione di tutti e di ciascuno.
5. LA NOZIONE PATRISTICA DELLA SALVEZZA-GUARIGIONE
Gesù sulla Croce diceva: Padre mio, perdona loro, non sanno quello che fanno (Lc 23, 34). Non sapere ciò che si fa è il proprio di un ammalato, il comportamento di un insensato reso sordo e cieco.
Alla luce della bibbia, la salvezza non ha nulla di giuridico, non è una sentenza di tribunale. In ebraico, salvezza (yéchà) significa la consegna totale, ed in greco l’aggettivo sôs corrisponde al sanus latino e vuole dire rendere la salute. L’espressione “la tua fede ti ha salvato” include il suo sinonimo: “La Tua fede ti ha guarito”. È per questo che il sacramento della confessione è concepito come “clinica medica” e l’eucaristia secondo sant’Ignazio di Antiochia è “rimedio di immortalità”. Il concilio Trullano (692) precisa: “Coloro che hanno ricevuto da Dio il potere di legare e sciogliere, si comporteranno come medici attenti a trovare il rimedio che richiedono ogni penitente ed il suo errore” poiché “il peccato è la malattia dello spirito”. Gesù-Salvatore, secondo i Padri, è “il Guaritore divino”, “Generatore della salute”, che dice: Non è la gente che sta bene che ha bisogno del medico, ma i malati (Lc 5, 31). Un peccatore è un malato che ignora la natura maligna del suo stato. La sua salvezza sarebbe l’eliminazione del germe della corruzione e la rivelazione della luce del Cristo, il ritorno verso lo stato normativo della natura, verso la sua salute ontologica.
6. IL GIUDIZIO
San Paolo parla della facoltà di vedere “il volto scoperto”, è già il pre-giudizio, ed il giudizio ultimo sarà la visione totale del tutto dell’uomo. Simone Weil dice profondamente: “Il Padre dei Cieli non giudica… attraverso lui gli esseri si giudicano”. Secondo i grandi spirituali, il giudizio è questa rivelazione alla luce non della minaccia della punizione ma dell’amore divino. Dio è eternamente identico a sé stesso, Egli è amore. “I peccatori nell’inferno non sono privati dell’amore divino”, dice sant’Isacco, ed è lo stesso amore che soggettivamente “diventa sofferenza nei reprobi e gioia nei beati”[8]. Dopo la rivelazione della fine dei tempi, non si potrà più non amare il Cristo; ma l’indigenza, il vuoto del cuore ci rendono incapaci di rispondere all’amore di Dio ed è la sofferenza indicibile dell’inferno.
L’Evangelo usa l’immagine della separazione delle pecore e dei capri. Ma non esistono affatto santi perfetti, come, in qualsiasi peccatore, ci sono almeno alcuni frammenti di bene. Secondo l’epistola ai Romani, la legge condanna il peccato ed insieme il peccatore, la sua sola vittoria sul male è la distruzione del peccatore. Ma, il Cristo sulla Croce ha separato il peccato dal peccatore, ha condannato e distrutto il potere del peccato ed ha salvato il peccatore. A questa luce, la nozione del giudizio s’interiorizza, non è una separazione tra gli uomini ma all’interno di qualsiasi uomo. In questo caso, anche “la seconda morte” si riferisce non agli esseri umani, ma agli elementi demoniaci che portano in loro. È il senso preciso dell’immagine del “fuoco”, che non è tortura e punizione ma purificazione e guarigione. La spada divina penetra nelle profondità umane e rivela che ciò che fu dato da Dio come dono non è stato ricevuto, essa rivela così il vuoto scavato dal rifiuto dell’amore e la diversità tragica tra l’immagine-appello e la somiglianza-risposta. Ma la complessità del miscuglio del bene e del male durante la vita terrestre, descritta nella parabola del frumento e del loglio (Mt 13, 24-30), rende ogni nozione giuridica inefficace e ci mette dinanzi al più grande mistero della Sapienza divina, convergenza della giustizia e della misericordia. “Alla sera della nostra vita saremo giudicati sull’amore”, su ciò che abbiamo amato sulla terra.
7. LA DISCESA AGL’INFERI
Il fiat umano, proclamato dalla Vergine Maria da parte di tutti, esige la stessa libertà del Fiat creatore di Dio. Ed è per questo che Dio accetta di essere rifiutato, misconosciuto e respinto dalla ribellione della sua creatura. Sulla Croce, Dio contro Dio ha preso la parte dell’uomo. L’umanità da Adamo è arrivata allo Sheòl, buio soggiorno dei morti. Nell’ufficio del sabato della passione si canta: “Sei sceso sulla terra per salvare Adamo, e non trovandolo, o Maestro, sei andato a cercarlo fino negli inferni”. È dunque lì che il Cristo andrà a cercarlo, caricato del peccato e dei segni dell’Amore crocifisso, della preoccupazione sacerdotale del Cristo-Sacerdote per il destino di quelli che sono agli inferi.
Se “il Regno di Dio è in mezzo a voi”, l’inferno vi è presente anch’esso. Tutta una parte del mondo moderno da cui Dio è escluso lo è già. Secondo san Giovanni Crisostomo, il battesimo non è soltanto morire e risuscitare con il Cristo, ma anche scendere agli inferi seguendo il Cristo. A differenza di Dante che Péguy rimproverava di scendere agli inferi “da turista”, ogni battezzato vi incontra il Cristo ed è la missione della Chiesa. Dio ha creato l’uomo come un’“altra libertà” ed il rischio che Dio ha assunto annuncia già “l’uomo dei dolori”, profila l’ombra della Croce, poiché secondo i Padri, “Dio può tutto, eccetto forzare l’uomo ad amarlo”. Nella sua attesa, Dio rinuncia alla sua onnipotenza, anche alla sua onniscienza, ed assume interamente la sua kènosis sotto la figura dell’Agnello immolato. Il suo destino fra gli uomini è sospeso al loro fiat. Prevede il peggio ed il suo amore è tanto più vigile, poiché l’uomo può rifiutare Dio e costruire la sua vita sul suo rifiuto, sulla sua ribellione. Chi lo trascina, l’amore o la libertà? Entrambi sono infiniti e l’inferno porta questa questione nella sua carne bruciante.
8. L’INFERNO
La corrente concezione delle sofferenze eterne è soltanto un’opinione scolastica, una teologia semplicistica di natura “penitenziale” e che trascura la profondità di testi come Giovanni 3, 17 e 12, 47. Ciò che è inconcepibile, è di immaginare che accanto all’eternità del Regno, Dio prepari quella dell’inferno, cosa che sarebbe, in un certo senso, un fallimento di Dio ed una vittoria parziale del male.
Se un tempo sant’Agostino condannò i “misericordiosi”, sostenitori della concezione della salvezza universale uscita da Origene, fu per allontanare il libertinismo ed il sentimentalismo fuori luogo; ma oggi, l’argomentazione pedagogica del timore è completamente inefficace. Invece, il sacro tremito dinanzi alle cose sante salva il mondo dalla sua banalità e l’amore perfetto bandisce il timore (1Gv 4, 18). All’opinione personale dell’imperatore Giustiniano (che si collega ai “giusti” della storia di Giona) si oppone la dottrina di san Gregorio di Nissa[9] che non è stato mai condannato. Parla della redenzione anche del diavolo; san Gregorio di Nazianzo[10] menziona l’apocatastasis; san Massimo il Confessore[11] invita l’uomo “ad onorarla in silenzio” poiché lo spirito della folla non è idoneo a comprendere la profondità delle parole e non è saggio aprire agli imprudenti delle considerazioni sull’abisso della misericordia. Secondo sant’Antonio, l’apocatastasis non è una dottrina, né il tema di un discorso, ma la preghiera per la salvezza di tutti. Gesù-Salvatore in ebraico significa “Liberatore” e, come dice magnificamente san Clemente di Alessandria: “Come la volontà di Dio è un atto e si chiama il mondo, così, la sua intenzione è la salvezza e si chiama la Chiesa”[12]. Si tratta di una malattia da curare, anche se il rimedio è il sangue di Dio.
Senza nulla “pregiudicare”, la Chiesa si abbandona “alla filantropia” del Padre e intensifica la sua preghiera per i vivi e per i morti. I più grandi fra i santi trovano l’audacia ed il carisma di pregare anche per i demoni. Forse l’arma più temibile contro il Maligno è proprio la preghiera di un santo, ed il destino dell’inferno dipende dalla volontà trascendente di Dio, ma anche dalla carità dei santi. Qualsiasi fedele ortodosso, avvicinandosi alla santa tavola, confessa: “Sono il primo dei peccatori”, cosa che vuole dire il più grande, “l’unico peccatore”. Sant’Isacco nota: “Colui che vede il suo peccato è più grande di colui che risuscita i morti”. Una simile visione della sua nuda realtà insegna che si può parlare dell’inferno soltanto quando ci riguarda personalmente. Il mio atteggiamento è di lottare contro il mio inferno che mi minaccia se non amo gli altri per salvarli. Un uomo molto semplice confessa a sant’Antonio: “Osservando i passanti, mi dico: ‘Tutti saranno salvati, io solo sarò dannato’”, e sant’Antonio per concludere “L’inferno esiste realmente, ma per me solo…”. Riprendendo la formula di sant’Ambrogio: “Lo stesso uomo è allo stesso tempo condannato e salvato”, si può dire che il mondo nella sua totalità è così “allo stesso tempo condannato e salvato”. Allora, forse è nella sua condanna che l’inferno trova la sua trascendenza. Sembra che sia lì il senso della parola che il Cristo avrebbe detto ad un starets contemporaneo, Silvano dell’Athos: “Tieni il tuo spirito all’inferno, ma non disperare…”.
L’Oriente non mette limite né alla misericordia di Dio né alla libertà dell’uomo di rifiutare questa grazia. Ma soprattutto non mette limite all’arte di essere testimone, alla carità inventiva di fronte alla dimensione infernale del mondo. Ogni battezzato è un essere invisibilmente “stigmatizzato”, “Gesù è una ferita dalla quale non c’è cura”, ha detto Ibn Arabi. È questa ferita per il destino degli altri che aggiunge qualcosa alla sofferenza del Cristo “entrato in agonia fino alla fine del mondo”. Imitare il Cristo, è configurarsi al Cristo totale, è scendere al suo seguito nel fondo del baratro del nostro mondo. L’inferno non è altro che l’autonomia dell’uomo ribelle che lo esclude dal luogo dove Dio è presente. La potenza di rifiutare Dio è il punto più avanzato della libertà umana; è voluta tale da Dio, cioè senza limiti. Dio non può forzare alcun ateo ad amarLo ed è, si oserebbe appena dirlo, l’inferno del proprio amore divino, la visione dell’uomo immerso nella notte delle solitudini.
Se Giuda fugge nella notte (Gv 13, 2-30), è perché Satana è in lui. Ma Giuda porta via nella sua mano un mistero terribile, il pezzo di pane della Cena del Signore[13]. Così l’inferno conserva nel suo seno una particella di luce, che risponde alla parola: “La Luce splende nelle tenebre”. Il gesto di Gesù designa l’ultimo mistero della Chiesa: è la mano di Gesù che offre la sua carne ed il suo sangue; l’appello è per tutti, poiché tutti sono in potere del principe di questo mondo. La luce non dissipa ancora le tenebre, ma le tenebre tuttavia non hanno alcuna influenza sulla luce invincibile. Siamo nella tensione estrema dell’amore divino. Dio non è “impassibile”. Il libro di Daniele (3, 25) parla dei tre giovani gettati nella fornace. Il re scorge la presenza misteriosa del quarto: Vedo quattro uomini che camminano in mezzo al fuoco senza che loro arrivi alcun male, ed il quarto ha il volto del Figlio di Dio…
È a questo livello che troviamo l’esigenza dell’inferno che testimonia la nostra libertà di amare Dio. È essa che genera l’inferno poiché può sempre dire con tutti i ribelli: “Che la tua volontà non sia fatta” e Dio stesso non ha alcuna influenza su questa parola. Con le ragioni del nostro cuore, sentiamo che la nostra visione di Dio diventa inquietante se Dio non ama la sua creatura fino a rinunciare a punirla con una separazione crudele; è anche inquietante se Dio non salva l’amato senza toccare né distruggere la sua libertà… Il Padre che manda suo Figlio sa sempre che anche l’inferno è suo dominio e che “la porta della morte” è cambiata “in porta della vita”. L’uomo non deve mai cadere nella disperazione, può cadere soltanto in Dio ed è Dio che non dispera mai.
Durante il Mattutino della notte di Pasqua, nel silenzio della fine del Grande sabato, il sacerdote ed il popolo lasciano la chiesa. La processione si ferma all’esterno dinanzi alla porta chiusa del tempio. Per un breve momento, questa porta chiusa simbolizza la tomba del Signore, la morte, l’inferno. Il sacerdote fa il segno della croce sulla porta, e sotto la sua forza irresistibile, la porta, come la porta dell’inferno, si spalanca e tutti entrano nella chiesa inondata di luce e cantano: “Cristo è risuscitato dai morti, con la morte ha vinto la morte, a quelli che sono nelle tombe egli ha dato la vita!”. La porta dell’inferno è ridiventata la porta della Chiesa, del Regno. Non si può andare più lontano nel simbolismo della festa. In verità, il mondo nella sua totalità è allo stesso tempo condannato e salvato, è allo stesso tempo l’inferno ed il Regno di Dio. “Ecco, fratello mio, un comandamento che ti do, dice sant’Isacco, che la misericordia prevalga sempre sulla tua bilancia, fino al momento in cui sentirai, in te stesso, la misericordia che Dio prova verso il mondo”[14].
I grandi vespri che seguono la liturgia della Pentecoste comprendono tre preghiere di san Basilio. Nella terza si prega per tutti i morti dalla creazione del mondo. Una volta l’anno, la Chiesa prega anche per i suicidi… La carità della Chiesa non conosce limiti, porta e rimette il destino dei ribelli tra le mani del Padre e queste mani sono il Cristo ed il Santo Spirito. Il Padre ha consegnato ogni giudizio al Figlio dell’uomo ed è “il giudizio del giudizio”, il giudizio crocifisso. “Il Padre è l’amore che crocifigge, il Figlio è l’amore crocifisso, ed il Santo Spirito è la potenza invincibile della Croce”. Questa potenza esplode nei soffi e nelle effusioni del Paraclito, di Colui che è “presso di noi” e che ci difende e ci consola. È la gioia di Dio e dell’uomo. Il Cristo non ci chiede che di rimetterci completamente a questa gioia: Me ne vado per prepararvi un posto… Ritornerò a prendervi con me affinché, dove sarò, voi siate con me (Gv 14, 2-3). Dio ha pazienza verso noi tutti, non vuole che alcuno perisca… quali non devono essere la vostra santità e la vostra preghiera, che attende e che accelera l’arrivo del giorno di Dio (2Pt 3, 9 e 11). Poiché questo giorno non è solo un obiettivo, né il termine della storia, questo Giorno è il mistero di Dio in pienezza.
Pavel Evdokimov
Fonte: Nati dallo Spirito