Cronaca di una sera d'agosto sulla riviera ligure: c'è la presentazione dell'ultimo libro di Elena Loewenthal, "Conta le stelle, se puoi", edito da Einaudi. Io e la mia amica patita di letteratura ci presentiamo puntuali ma senza premura, convinte che "tanto, con questo caldo, chi vuoi che si rintani in una biblioteca..." e invece la sala è affollata. Presenta la serata un insegnante di mezza età, organizzatore del concorso letterario locale: anche l'autrice è puntualissima, con l'eleganza serena di una tipica "madamin" in ferie, figura molto meglio dal vivo che nei sorrisi tirati delle foto sui vari giornali cui collabora.
Dalle prime battute dell'intervista, quasi ci viene il sospetto di essere incappate nell'ennesimo volumetto di fanta-storia dai toni spiritati: come sarebbe andata a finire se Mussolini fosse morto dopo appena due anni di regime (l'autrice inizialmente si "impapera" e scambia il nome con quello di Hitler, ma chi al suo posto non sarebbe colpito da simili lapsus?), ma il racconto parte molto prima ed è la storia di una famiglia ebraica piemontese, che inizia a fine Ottocento con il giovane Moise che da Fossano si sposta a Torino in cerca di fortuna e prosegue con tutti i suoi figli e nipoti fino ad oggi, raccontando il Novecento che buona parte dell'Italia avrebbe voluto, tirando in campo l'America, il sionismo e diversi fatti della storia di ieri, ma senza insistenza nè retorica, come semplice sfondo alle vicende dei personaggi. Un'Italia dove tutto sommato si vive bene, che diventa repubblica nel '38 senza colpo ferire, una città in cui l'editoria per bambini permette ad una delle figlie di Moise, infelice per non essere sposata, di riconciliarsi con la vita.
Elena Loewenthal racconta la storia quasi per intero, e traspare la commozione per certi episodi liberamente ispirati alla vita di alcuni suoi familiari, ma anche il suo quotidiano impegno di docente a Milano nel modo in cui spiega qualche termine in ebraico o in piemontese stretto buttato qua e là nel testo: mi ricorda tanto la giovane insegnante di inglese, gentile e sempre sorridente, che aveva accompagnato all'esame di maturità la classe più difficile di tutto il liceo. Ma all'intervistatore che le chiede come le sia venuta l'idea di modificare la storia in quel modo, risponde che non è stata una fuga dalla realtà nè il mero resoconto delle aspirazioni troncate dei vari suoi parenti che non uscirono vivi da quegli anni (a rigor di logica, dice lei, sopravvissuti lo siamo tutti al di là del cognome che portiamo), ma che piuttosto vuole essere un modo per confermare la sua convinzione che esista un destino buono per cui ognuno è disegnato: che si può nascere per diventare un capostipite, per viaggiare, per scrivere la propria rassegnazione o per fare il ribelle, ma mai per finire in fumo.
Il titolo è quello di un'antica promessa, quella che l'Eterno fece ad Abramo nella notte dei tempi: "Guarda il cielo e conta le stelle, se puoi: tale sarà la tua discendenza...", e uscendo dalla sala non si può non pensare a come nel frattempo l'uomo sia diventato stupido: non malvagio o immorale ma completamente scemo, a temere come un disastro quella che fu la seconda chance data all'uomo, che già si era giocato l'Eden. Oggi come allora, è lo stesso avversario strisciante che insinua nelle menti la paura e il rifiuto della discendenza, che fa sputare ad insospettabili signore una valanga di insulti e maledizioni contro chi osa volerne una numerosa, che spinge centinaia di ragazze ad assumere una forma e un vestiario androgini per nascondere il proprio genere come fosse una malattia. Quegli stessi che applaudivano la scrittrice per la sua storia romanzesca, con ogni probabilità prenderebbero a pesci in faccia un vicino di casa come Moise Levi, con i suoi due matrimoni e sei figli. D'altro canto, erano tutti in età avanzata: gente del secolo scorso.
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