mercoledì 10 marzo 2010

Dalla parte del bambino

Diego nasce alla 38° settimana di gestazione da taglio cesareo elettivo, la mamma è una precesarizzata. Fino a quel momento Diego aveva fatto il suo dovere, mettendosi in posizione cefalica, ma senza fretta, perché non aveva avvertito alcun segnale che gli indicava di doversi impegnare. Nessun avvertimento biochimico o ormonale, nessun segnale meccanico, nessuna comunicazione tra lui e la placenta, nessun vero dialogo tra il suo cervello e quello della mamma. Lui non poteva sapere che quel cerchiolino sul calendario in cucina stava ad indicare che mercoledì mattina alle 8, in una moderna sala operatoria, il suo mondo sarebbe definitivamente cambiato. Quando la mano guantata lo estrae con attenzione, ma senza chiedere il permesso, il suo viso è una enorme unica smorfia; esce come da un sifone trascinandosi tutto il suo liquido (è proprio suo, l’ha prodotto lui). Come giustamente si usa dire: Diego viene alla luce; la luce della vita? No, la luce della scialitica (anzi due, di fabbricazione tedesca).

Con gesti rapidi e sicuri viene immediatamente separato dalla sua placenta; ‘la placenta è l’unico organo del corpo che si butta via’.

L’Apgar si dà al termine del primo minuto, ma Diego inizia a respirare al terzo secondo, e a otto secondi mostra già tutti i dieci punti. E continua a piangere; ma, ‘neonato che piange, anestesista che ride’. In effetti tutti ridono e si complimentano a vicenda; anche Diego riceve molti complimenti, ma lui non gradisce e continua a piangere. L’ostetrica che l’ha preso per portarlo sul lettino tenta di calmarlo asciugandolo e avvolgendolo con un telo tiepido. Respira già bene e quindi non viene aspirato; anche la luce del lettino viene spenta per non disturbarlo inutilmente, ma lui continua a piangere. E’ così arrabbiato da inarcarsi in opistotono, anche gli arti sono rigidi. Fortunatamente questo atteggiamento dura poco, altrimenti anche il respiro avrebbe cominciato a farsi difficoltoso.

Viene avvolto più stretto nel telino per dargli un confine e una sponda di appoggio, ma lui continua a piangere. L’anestesista ora non ride più ed è stupito da questa disperazione ‘perché fa così? cosa c’è di meno traumatico che nascere da cesareo senza neppure la fatica del travaglio?’. Queste parole mi colpiscono, anche se dal punto di vista del medico, o semplicemente di un adulto, sono logiche. E’ dal punto di vista di Diego che invece sono prive di senso.

Cerchiamo di capire perché.

Tecnicamente Diego nasce con un parto precipitoso; non è possibile concepire un modo per nascere più veloce di questo. Senza travaglio non gli è stata possibile alcuna preparazione e neppure alcuna partecipazione. Soltanto aspettando l’inizio spontaneo del travaglio avremmo potuto capire quando Diego era pronto per nascere. E’ anche per questo che i nati a termine da taglio cesareo senza travaglio, hanno un rischio di patologia respiratoria da difficoltoso adattamento circa sette volte maggiore dei nati da parto spontaneo.

La mancata partecipazione fisica ed emotiva al travaglio e al parto, impediscono l’attivazione di quei raffinati movimenti fetali di locomozione e propulsione che Milani Comparetti identificava come repertorio innato del feto, in grado di dare inizio agli automatismi primari (cioè quelle competenze geneticamente programmate che attivate dall’esperienza e dall’ambiente danno origine a importanti funzioni adattive).

Cerchiamo di immaginare come Diego ha vissuto fino a pochi secondi dalla nascita.

Avvolto dal liquido, in assenza di gravità, massaggiato continuamente dalle pareti morbide, lisce e pulsanti dell’utero, accompagnato da suoni continui (interni ed esterni al corpo materno), in perenne e ritmico dondolio. Diego come tutti i feti per nove mesi è un bambino ‘viziato’; in utero infatti il bisogno viene soddisfatto prima ancora di essere percepito, in quello stato è assente la percezione di mancanza. La fame e la sete vengono annullate da una placenta prodiga, simile alla manna del racconto biblico, un nutrimento pronto e non conservabile, in una posologia definibile quanto basta.

Se approfondiamo il nostro sforzo di immaginare la vita fetale di Diego, riusciamo a intuire che per lui (ancora privo di individualità consapevole) mondo interno e mondo esterno coincidono; lui è anche la sua placenta, ma anche il suo utero, e anche la sua mamma. Per alcuni mesi dopo il parto Diego non avrà una mamma, perché la mamma continuerà ancora per un po’ ad essere percepita come una parte di sé. In utero ha vissuto buona parte del suo tempo in una sorta di dormiveglia, in sonno attivo (e questo ha favorito il suo sviluppo cerebrale). In realtà Diego non è in grado di distinguere tra la veglia e il sonno, tra la realtà e il sogno; e poiché quando sogna non sa di sognare, vivrà il suo sogno con la stessa intensità della veglia attiva.

Diego fino al momento della nascita ha vissuto soltanto il tempo uterino, che è un non-tempo, con caratteristiche di costanza e prevedibilità, dove il ritmo è dato dalla periodicità biologica dell’organismo materno e fetale. E’ proprio questa coerenza dell’esistenza fetale a caratterizzare il mondo uterino, dove la coscienza emozionale è rappresentata da una percezione sensoriale globale, nella quale la dimensione cognitiva ed affettiva coincidono.

Come ogni feto Diego è un soggetto sinestesico, incapace di separare e catalogare con un pensiero razionale e simbolico la natura delle proprie percezioni ed emozioni. Lui è il suo corpo, ma questo corpo comprende anche l’ambiente nel quale è inserito, e il suo ambiente arriva fin dove la sua capacità percettiva è capace di giungere.

Quando Diego nasce è quindi un bambino ‘viziato’ che non può fare a meno dell’esperienza fatta in utero, un’esperienza che potremmo definire di ‘relazione-senza relazione’ (dove appunto 1+1 fa esattamente 1); nel momento in cui nasce deve iniziare a sperimentare una nuova forma di esistenza (e a questo punto nella logica della nascita 1-1 farà 2). Adesso occorre costruire una relazione vera tra due o più individui, ma a Diego occorreranno mesi per capire o intuire questa difficile verità.

Ritorniamo ancora a Milani Comparetti che oltre vent’anni fa, con profetica lucidità, definiva la nascita ‘un evento che agisce come organizzatore di nuovi e diversificati fattori biologici e relazionali’, e sottolineava la ‘continuità del processo evolutivo ontogenetico’ nel quale ogni nascita è inserita.

Il dialogo biologico e psicologico, che caratterizza la relazione madre-bambino iniziata in utero, con la nascita non si interrompe, ma si riconverte e si riorganizza; madre e bambino iniziano un rapporto nel quale ognuno di loro è contemporaneamente soggetto e oggetto.
La voce della mamma rappresenta il primo forte collegamento con la vita prenatale; sappiamo che per buona parte della vita fetale l’udito appare ben sviluppato e attivo, permettendo quella che viene definita memoria intrinseca o evocativa. Il timbro, il tono e la musicalità della voce materna può essere considerato la prima forma di collegamento tra l’endo e l’esogestazione. Ogni altro suono sarà nuovo, sconosciuto, disturbante, incapace di evocare alcunché.

Studi di neurofisiologia hanno mostrato la diversa attivazione cerebrale prodotta nel neonato dalla voce materna – il motherese - rispetto alla comune voce dell’adulto, dimostrando che il neonato, fin dal settimo mese di gestazione, è capace di processare la qualità dei suoni discriminando le componenti linguistiche.

Quando il neonato si rilassa, ritrova un nuovo equilibrio sensoriale e una nuova dimensione cinestesica, arrivando ad aprire gli occhi. Inizialmente ‘vedrà senza guardare’ non potendo vedere nulla di noto (neppure il volto materno); occorrerà un po’ di tempo per mettere in collegamento il volto della madre con la sua voce, il suo odore, il suo tocco, il suo seno, il suo latte, ….

Il contatto col seno riporta il neonato alla prevedibilità e alla coerenza uterina. Per lui la realtà è ancora sinestesica: quando succhia il seno, con la bocca beve il latte e con lo sguardo beve il viso della mamma; intanto annusa, tocca ed è toccato. Durante l’allattamento i suoi sensi sono particolarmente attivi e sinergici; così nel momento della poppata sono tantissimi i bisogni che vengono contemporaneamente soddisfatti: fame, sete, calore, contenimento, contatto, visione, …e per un po’ si realizza una nuova rassicurante omeostasi.

Durante la suzione del seno il neonato riesce ad addormentarsi direttamente in sonno REM, cominciando immediatamente a sognare; ma a sognare cosa? probabilmente sogna di poppare oppure di essere tornato nella pancia ‘dove ogni bisogno è soddisfatto prima di poter essere percepito’.

Il passaggio da feto a neonato è un processo biologico e psicologio che coinvolge principalmente il SNC (gli altri organi e apparati sono coinvolti solo secondariamente). Nelle ultime settimane di gravidanza il tronco cerebrale ha terminato la sua maturazione e la corteccia ha iniziato ad integrarsi con le strutture sottocorticali permettendo l’elaborazione delle esperienze sensoriali. Attraverso la plasticità cerebrale, le stimolazioni e le interazioni con l’ambiente producono condizionamenti e modifiche strutturali sulla maturazione cerebrale, sia nell’ultimo periodo fetale che nei primi mesi di vita.

Il percorso da feto a neonato potrebbe essere considerato una forma di ‘ricerca di senso’, inizialmente di coerenza ed equilibrio e subito dopo di maggiore organizzazione.

Potremmo anche paragonare il neonato ad un adolescente, entrambi vivono infatti una faticosa e stimolante esperienza di transizione tra un mondo definitivamente perduto e un altro completamente nuovo da costruire.

Ma come aiutare questo ‘adolescente’ privo di coscienza e pensiero simbolico, innamorato folle della propria madre? Come aiutare questo individuo incapace di riconosce la realtà, ma che nella realtà si trova a vivere completamente esposto, privo di filtri e difese?

La nostra specie vive il primo semestre di vita mantenendo funzioni di natura fetali, e per questo parliamo di esogestazione. Per Winnicott il neonato al momento della nascita non è ancora pronto per nascere e Selma Fraiberg ha osservato che ‘gli avvenimenti della sua vita sono senza connessione’.

Se vogliamo rendere più facile al neonato la sua disperata ricerca di equilibrio, dobbiamo mettere ordine e coerenza nella ‘confusione’ delle sue percezioni, ricordando, come osservava J. Korzack, che egli pensa per ‘emozioni e sentimento’.

Diego ha mostrato in modo eclatante tutto il suo bisogno di adattamento, ma anche la sua mamma e il suo papà non sono esenti da bisogni speciali ed emotivamente importanti.

Il loro primo bisogno nasce dalla necessità di vedere, di ascoltare e di toccare il bambino, di sentirlo vivo (a noi medici invece interessa la sua vitalità,… non è la stessa cosa). Ma subito dopo compare il bisogno di essere visti da lui, e poi di essere toccati, fino ad arrivare ad essere ‘mangiati’ da lui (anche se inizialmente è solo un piccolo assaggio).

In un attimo compare il bambino reale, quello vero, che sostituisce quello immaginato; ma il neonato immaginato è anche un po’ temuto, e quindi occorre che una persona di fiducia dichiari esplicitamente: è sano e sta bene (anche se la cosa fosse già di per se evidente).

Il tenere in braccio rappresenta il termine della fatica della gravidanza e lo scopo del dolore del parto, ma è anche l’inizio vero e proprio di un progetto esistenziale che può essere guardato e toccato. In questo momento si colma, in maniera quasi automatica e inconscia, quel senso di vuoto di una pancia disabitata, dove improvvisamente non avvengono più movimenti e azioni.

Questo processo può essere rapidissimo, oppure può durare a lungo se il neonato viene portato via, se il bambino invisibile della pancia non si mantiene in continuità col bambino tenuto in braccio; il bambino che ritorna lavato e vestito, può essere percepito come un altro bambino.

Ha scritto una mamma: il risveglio dall’anestesia del cesareo è stato strano, non c’era più la pancia e non c’era più mia figlia (…) Era tutto talmente doloroso, un vero incubo, era come se non avessi partorito, mi comportavo come se mio figlio non fosse mai nato, come se non fossi mai stata incinta, altrimenti non avrei retto quel distacco innaturale (…)

E’ molto difficile per il personale ospedaliero aiutare un neonato disorientato, lo dimostra la facilità con la quale viene accettato il suo pianto. Il pianto non è una semplice forma espressiva (altrimenti i neonati canterebbero!) e neppure una ginnastica respiratoria (sic), il pianto serve per sperimentare la consolazione. Quando noi restiamo senza reagire a urla e pianti insistenti siamo come giornalisti inviati di guerra che al fronte, in poco tempo, assumono atteggiamenti distaccati e cinici; il nostro è un normale atteggiamento di difesa, ma il rischio è di creare un ambiente anaffettivo, dove anche i genitori per condizionamento e imitazione possono vedere prosciugarsi o bloccarsi la loro sensibilità e affettività inconscie.

Come operatori sanitari possiamo invece aiutare i genitori a essere emotivamente disponibili, favorendo la loro predisposizione all’accudimento, incoraggiando il fare, rassicurando e rispondendo ai dubbi e se necessario prevenendo i pregiudizi inespressi: ‘signora, forse il bambino vuole essere preso in braccio e coccolato, provi a prenderlo con sé, adesso che è ancora piccolo non corre nessun rischio di viziarlo’.

Dobbiamo anche evitare di confondere la puericultura con il maternage: la puericultura riguarda le prassi e le modalità di comportamento degli operatori, mentre il maternage comprende l’insieme delle azioni e degli atteggiamenti che permettono alla madre di prendersi cura del bambino. La puericultura può essere standardizzata e normata da protocolli, mentre il maternage è sempre e solo personale, unico, dinamico e creativo.

I due ambiti possono contaminarsi positivamente: gli operatori possono personalizzare il loro agire e migliorare la loro sensibilità, i genitori possono acquisire un saper fare facilitato e più fiducioso. Occorre però evitare incoerenza e confusione tra i ruoli: la mamma che diventa una brava e precisa infermiera del figlio, l’operatore che sostituisce la madre in mansioni che esprimono un’importante valenza relazionale, come ad esempio l’alimentazione o il tenere in braccio (scriveva con un po’ di perfidia Winnicott: non lasciate che una persona prenda in braccio il vostro bambino, se capite che ciò non ha alcun significato per lei).

Come operatori dobbiamo puntare ad affinare sensibilità e attenzione nel cogliere le sfumature tra la relazione genitori-figlio, ‘pulendo’ il nostro linguaggio, favorendo intimità e rassicurazione; dobbiamo crescere nella consapevolezza che qualunque nostra procedura o azione non potrà mai essere neutra e, se non necessaria, diventerà immediatamente un ostacolo ai processi di adattamento e di bonding.

Usando per un attimo la prospettiva del neonato, proviamo a chiederci: alla nascita il neonato si aspetta di essere messo in una culla o di essere preso in braccio? Tenere in incubatrice per alcune ore dopo il parto un neonato che non ne ha bisogno, significa sostituire il dialogo uterino che si è improvvisamente interrotto, con un ambiente neutro e anaffettivo, che il neonato non è in grado di comprendere e di gestire; l’incubatrice è un oggetto col quale non è possibile interagire e che impedisce ad un neonato reattivo di organizzare una relazione primaria, minando così la sua ricerca di equilibrio col nuovo ambiente.

Sono ormai numerose le evidenze che mostrano la superiorità del contatto pelle a pelle rispetto all’incubatrice per stabilizzare la termoregolazione nell’immediato postpartum. Come già evidenziato per l’allattamento, anche il contatto madre-bambino subito dopo il parto assume molteplici valenze, coinvolgendo l’insieme delle componenti psicofisiche del neonato e producendo effetti di gran lunga superiori alla pratica tout court.

Siamo tutti consapevoli che il primo periodo dopo la nascita rappresenta un momento privilegiato per la costruzione dei processi di attaccamento tra i genitori e il bambino. La teoria di Bowlby è stata definita una teoria ‘spaziale’, nel senso che necessita di contatto diretto e vicinanza costanti, a mio avviso è anche una teoria ‘temporale’ che richiede tempi e modi privilegiati, il cui riferimento sono il ritmo e la periodicità uterine. In questa fase sarebbe quindi particolarmente utile posticipare gli interventi non strettamente o immediatamente necessari.

Occorre che riscopriamo e affiniamo un saper fare che promuova la normalità (Milani Comparetti parlava di semeiotica positiva) affinché la fisiologia possa rimanere tale e la cultura del nascere non venga contaminata da mansioni e procedure che non le appartengono.

Salvaguardare la ‘normalità’ di un neonato significa non aspirarlo se sputa e tossisce, significa interrompere il bagnetto se questo lo fa piangere, vuol dire attivarsi per portarlo rapidamente ad uno stato di tranquillità (Apgar 12?), posticipando la profilassi antiemorragica e oftalmica almeno di una paio d’ore dopo la nascita.

Anche sul neonato è possibile fare azione di empowerment, al fine di canalizzare e finalizzare le risorse e le energie di cui la natura lo ha fornito.

Siamo stati capaci di portare la ‘mortalità perinatale’ a percentuali bassissime, ma adesso a quali percentuali pensiamo di riuscire a portare la ’felicità perinatale’?

Come operatori possiamo chiedere a noi stessi di farci educare dalle nascite e dai neonati che incontriamo ogni giorno; ma un cammino educativo presuppone la disponibilità ad un costante cambiamento, sia individuale che di gruppo.

Ai genitori invece spetta il compito di attivare sentimenti forti ed empatici, come scrive Winnicott, per ‘presentare al bambino il mondo in un modo che abbia senso per lui’. Inizialmente soltanto la mamma (l’ambiente uterino da poco abbandonato) è in grado di fare da filtro col ‘mondo esterno’ minimizzando stimoli ed esperienze per il neonato incomprensibili e poco tollerabili, facilitando invece i necessari adattamenti per riconquistare l’equilibrio perduto.

In un certo senso un neonato separato dalla madre è un neonato ‘malformato’, perché privo di qualcosa di essenziale; egli può essere considerato un sistema omeostatico aperto, regolato dai processi di attaccamento e di interazione con la mamma. La regolazione che la madre esercita su di lui è definitiva e potrà riattivarsi anche nella vita adulta ogni volta che si realizzeranno condizioni e bisogni primari.

Attraverso l’allattamento la madre è in grado di tramutarsi da nutrimento biologico a nutrimento emotivo, trasformandosi in esperienza totalizzante. Così come dalla placenta per nove mesi sono passati i nutrienti per vivere e per crescere, dopo la nascita è il seno a fornire sostanze vitali che, come il sangue placentare, hanno origine direttamente dal corpo materno.

Già Ludovico Dolce nel 1547 definiva il latte di donna ‘sangue bianco’ e spiegava: ‘provide la natura alla nudritura de fanciulli, convertendo con meraviglioso artificio il sangue in latte, affine che quello aspetto non spaventasse’. Effettivamente il latte della mamma mantiene il neonato in stretta dipendenza biologica, permettendogli di continuare a cibarsi di lei. La separazione dal corpo materno è resa lenta e progressiva, limitando così il ‘trauma’ di una nascita inevitabilmente sempre troppo veloce.

Nel 1794 nel suo Discorso sopra l’allattamento de’ bambini Antonio Fantini osservava che ‘porgendo il seno al figlio la madre sente una porzione della sua esistenza passare in quella di lui’, e questo intimo senso di comunicazione d’esistenza è così forte e così coinvolgente ‘che essa di tutto si scorda in un momento, e da tutti i legami più cari si stacca; ella si chiude in casa sua, né sa più vivere che per suo figlio, che le tien luogo di tutti’; dopo oltre due secoli è arrivata la nostra scienza moderna a farci scoprire bonding e reverie materna.

Anche le attuali discussioni sul rooming-in e l’attaccamento precoce al seno sono state oggetto di riflessione già molti decenni orsono (almeno fin dagli anni ’40) e un pediatra milanese poco noto, Ferdinando Cislaghi, nel 1956 aveva il coraggio di scrivere: la nursery è comoda per molti, meno che al neonato. A quando una seria e onesta discussione sulla inutilità e sul danno iatrogeno prodotto per decenni dai nidi delle nostre maternità ?

Per terminare la storia della nascita di Diego, con la quale abbiamo iniziato questa riflessione, dobbiamo raccontare che quel suo pianto insistente e inconsolabile si è interrotto per pochi minuti soltanto quando è stato portato vicino alla mamma (ancora sul lettino operatorio) e ha potuto ascoltare la sua voce.

Mentre per noi operatori il mercoledì mattina in cui Diego è nato rappresenta un comune e feriale giorno lavorativo, per lui quello è stato il giorno più importante della sua vita; per sperimentare ancora un cambiamento esistenziale tanto impegnativo e significativo dovrà aspettare l’ultimo secondo della sua vita.

Alessandro Volta, pediatra

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