Più di cinquant’anni fa una nota guida spirituale della tradizione anglicana, padre Algy Robertson (della Society of Saint Francis), che passava ogni settimana molte ore ascoltando le confessioni, mi disse con una nota di tedio nella sua voce: “Che peccato che non esistano nuovi peccati!”. Al contrario del punto di vista secolare prevalente, non è la santità ma è il peccato che è spento e ripetitivo. Il male è fondamentalmente non creativo e monotono, mentre i santi presentano una varietà e un’originalità inesauribili.
Se il peccato è essenzialmente ripetitivo, ne consegue che la lotta lotta spirituale, compresa come guerra invisibile contro i nostri pensieri malvagi e le nostre passioni peccaminose, continua a essere la stessa nel mondo contemporaneo così come è sempre stata nel passato. La forma esteriore può cambiare, ma il carattere interiore resta invariato. Un libro quale La scala del paradiso di Giovanni Climaco può essere un manuale pratico nel ventunesimo secolo così come lo fu nel settimo secolo. Oggi come nel passato il nostro avversario il diavolo si aggira come leone ruggente cercando chi divorare. Oggi come ieri satana si trasforma in un angelo della luce. Oggi come ieri Dio ci chiama a quello spirito di vigilanza sintetizzato dai padri ascetici dell’oriente cristiano con il termine nepsis, cioè “sobrietà”, “vigilanza”.
“Mortificare” o “trasfiguarare”?
Nei nostri colloqui di questi giorni abbiamo parlato spesso di passioni: ma che cosa si intende precisamente con questo termine? Ahimé, la parola inglese “passion”, che è solitamente usata per tradurre il termine pathos, è del tutto insufficiente per rendere il ventaglio di significati presenti nel termine greco. Collegato al verbo paschein, “soffrire”, pathos indica fondamentalmente uno stato passivo, in contrasto con dynamis, una forza attiva; esso indica qualcosa subito da una persona o da una cosa, un evento o uno stato vissuto passivamente; pertanto il sonno e la morte sono definiti pathos da Clemente di Alessandria, mentre Gregorio di Nazianzo descrive le due facce della luna come pathe. Applicate alla nostra vita interiore, pathos ha quindi il significato di un sentimento o di un’emozione patita o subita da una persona.
Due differenti atteggiamenti nei confronti delle passioni possono essere distinti già nella filosofia greca antecedente il periodo patristico. Il primo è quello che si trova nello stoicismo primitivo, dove pathos significa un impulso disordinato ed eccessivo, horme pleonazousa secondo la definizione di Zenone. Si tratta di un disturbo patologico della personalità, una malattia (morbus), come lo definisce Cicerone. Il saggio, pertanto, mira all’apatheia, all’affrancamento dalle passioni.
Accanto a questa visione pessimistica delle passioni, tuttavia, vi è anche una valutazione più ottimistica, che si ritrova in Platone e, in misura più articolata, in Aristotele. Platone nel Fedro utilizza l’analogia dell’auriga e dei due cavalli: l’anima è qui considerata come un cocchio con la ragione (to logistikon) come auriga; i due cavalli che sono aggiogati al cocchio – l’uno di razza nobile, mentre l’altro disobbediente e ribelle – rappresentano rispettivamente le emozioni più nobili della parte dell’anima “dotata di spirito” o “inclusiva” (to thymikon) e le emozioni più primitive della parte “appetitiva” (to epithymitikon). Ora il cocchio a due cavalli ha bisogno di cavalli per muoversi, e allo stesso modo l’anima, senza le energie vitali fornite da pathe, mancherebbe di vigore e di forza per agire. Inoltre, il cocchio a due cavalli per muoversi nella direzione giusta ha bisogno non di uno ma di entrambi i cavalli; la ragione, dunque, non può fare a meno né delle emozioni nobili né delle passioni più primitive, sforzandosi però di tenerle entrambe sotto controllo. Pertanto questa analogia comporta che il saggio deve aspirare non alla soppressione totale delle passioni nelle diverse parti dell’anima, bensì al loro mantenimento nel giusto equilibrio e armonia.
Una visione simile è offerta da Aristotele nell’Etica nicomachea. Secondo lui le pathe includono non soltanto cose quali il desiderio e la collera, ma anche l’amicizia, il coraggio e la gioia. In sé le passioni non sono “né virtù né vizi”, dice Aristotele, né intrinsecamente buone né intrinsecamente cattive, e noi non siamo né elogiati né biasimati a causa di esse; le passioni sono impulsi neutrali e tutto dipende – come il metropolita Filaret ha indicato nel suo intervento – dall’uso che ne facciamo. Il nostro obiettivo pertanto non è (come nello stoicismo) l’eliminazione totale delle passioni, ma piuttosto una via di mezzo (to meson), cioè un uso moderato e ragionevole di esse: l’ideale non è l’apatheia ma la metropatheia (termine che però non è usato in quanto tale da Aristotele stesso nella sua opera).
Quale di queste due comprensioni della passione è adottata nella teologia patristica? Di fatto non vi è unanimità tra i padri. Innanzitutto, un gruppo considerevole di autori abbraccia l’utilizzo stoico, di carattere negativo. Clemente di Alessandria ripete la definizione di Zenone di pathos quale pleonazousa horme, un “impulso eccessivo”, “disobbediente alla ragione” e “contrario alla natura”. Le passioni sono “malattie” e la persona davvero buona non ha passioni. Similmente, Nemesio di Emesa abbraccia la visione stoica. Evagrio Pontico associa strettament le passioni con i demoni; lo scopo del lottatore spirituale, pertanto, è l’apatheia, anche se Evagrio ne dà un contenuto positivo, associandola strettamente con l’amore. Nelle omelie di Macario le passioni sono quasi sempre comprese in un senso peggiorativo.
Tuttavia, in secondo luogo, vi sono altri padri che, anche se fondamentalmente ostili nella loro valutazione delle passioni, ne contemplano pertanto un uso positivo. Gregorio di Nissa considera che il pathos non fosse originariamente parte della natura umana, ma “fu introdotto in seguito nell’uomo, dopo la prima creazione”, e di conseguenza non fa parte della costituzione dell’anima. Le passioni hanno un carattere “bestiale” (ktenodes), che ci rende simili ad animali. Tuttavia, avvicinandosi al punto di vista aristotelico, Gregorio di Nissa aggiunge che delle passioni si può fare un buon uso: il male sta non nel pathe in quanto tali, ma piuttosto nella libera scelta (proairesis) della persona che ne fa uso.
Giovanni Climaco è totalmente d’accordo con Gregorio di Nissa. Alcune volte egli parla in termini negativi, eguagliando pathos con il vizio o il male (kakia), e insiste che il pathos “non [era] originariamente parte della natura umana”, dicendo che “Dio non è il creatore delle passioni”; queste appartengono agli esseri umani nella loro condizione corrotta e devono pertanto essere considerate “empie”; nessuno deve aspirare a essere teologo a meno di non aver raggiunto l’apatheia. Tuttavia egli ammette che si possa fare un buon uso delle passioni; l’impulso che soggiace a ogni passione non è cattivo in sé, ma siamo noi che, attraverso l’esercizio del nostro libero arbitrio, “abbiamo preso i nostri impulsi naturali e ne abbiamo fatto delle passioni”. È degno di nota il fatto che Climaco non condanni l’eros, l’impulso sessuale, come intrinsecamente peccaminoso, ma lo consideri come qualcosa che può essere diretto verso Dio.
In terzo luogo, vi sono altri autori che si spingono addirittura oltre e paiono concedere non solo che si possa fare buon uso delle passioni, ma che esse siano parte della nostra natura originale in quanto creata da Dio. È questo il caso evidente di abba Isaia († ca 491). Nel suo secondo Discorso egli considera alcune realtà che sono solitamente considerate passioni, quali il desiderio (epithymia), l’invidia o gelosia (zelos), la collera, l’odio e l’orgoglio, sostenendo che esse sono fondamentalmente kata physin, “in accordo con la natura”, e si può fare di tutte un buon uso. In tal modo il desiderio che per natura dovrebbe essere orientato verso Dio, è stato da noi diretto fallacemente verso “ogni tipo di impurità”. Lo zelo o gelosia che dovrebbe condurci a perseguire la santità – “desiderate con zelo i carismi più grandi”, dice san Paolo (1Cor 12,31) – noi lo abbiamo corrotto, così che arriviamo a invidiarci gli uni gli altri. La collera e l’odio che dovrebbero essere orientati contro il demonio e tutte le sue opere, noi lo abbiamo rivolto contro il nostro prossimo. Perfino dell’orgoglio si può fare buon uso: c’è un’autostima buona che ci permette di contrastare l’autocommiserazione distruttiva e la depressione. Per abba Isaia, dunque, cose quali la collera e l’orgoglio – che Evagrio considererebbe come “demoni” o come pensieri malvagi – al contrario sono parte naturale della nostra personalità in quanto creata da Dio. Il desiderio e la collera non sono di per sé peccaminose: ciò che conta è il modo in cui vengono utilizzate, kata physin oppure para physin. È improbabile che abba Isaia sia stato influenzato direttamente da Platone o da Aristotele, che probabilmente non aveva mai letto, ma potrebbe aver attinto alla tradizione copta, come è attestato per esempio nel caso delle lettere attribuite a sant’Antonio il Grande.
Un’approccio positivo alle passioni si può altresì trovare in autori successivi. Quando Dionigi l’Aeropagita descrive Ieroteo come colui che “non soltanto ha appreso ma ha sperimentato le realtà divine” (ou monon mathon alla kai pathon ta theia), egli lascia certamente intendere che l’esperienza mistica è in un certo senso un pathos. Massimo il Confessore, sebbene tenda a far propria la posizione di Gregorio di Nissa secondo cui le passioni sono entrate nella natura umana soltanto successivamente alla prima creazione, fa nondimeno riferimento (come ha evidenziato padre Louth) alla “beata passione dell’amore divino” (makarion pathos tes theias agapes); inoltre egli non teme di parlare dell’unione con Dio in termini erotici; insiste che le passioni possono essere “encomiabili” così come “biasimevoli”. Secondo Gregorio Palamas lo scopo della vita cristiana non è la mortificazione (nekrosis) delle passioni ma la loro trasposizione o riorientamento (metathesis).
Ci sono, dunque, prove sufficienti secondo cui i padri greci siano stati influenzati non soltanto dall’approccio stoico, di tipo negativo, ma anche (direttamente o indirettamente) dalla valutazione aristotelica, di carattere più positivo. Quei padri che adottano una visione positiva, o almeno neutrale, delle passioni sono una minoranza, ma nondimeno una minoranza significativa. Si potrebbe naturalmente dire che la questione è squisitamente semantica, una questione di come scegliamo di utilizzare la parola “passione”; ma i diversi utilizzi della parola non hanno forse implicazioni più profonde? Le parole hanno un grande potere simbolico e il modo in cui vengono utilizzate ha un’influenza decisiva sul modo in cui concepiamo la realtà. Questo vale anche con la parola pathos: dobbiamo seguire l’utilizzo negativo degli stoici o quello più permissivo di Aristotele? Ciò può avere un effetto di ampia portata sulla direzione pastorale che noi offriamo agli altri e a noi stessi. Dobbiamo parlare di “mortificare” o di “trasfigurare”? Dobbiamo dire “sradicare” o “educare”? “Eliminare” o “riorientare”? Siamo di fronte a una grande differenza.
Per quanto riguarda la nostra lotta spirituale nel mondo contemporaneo io sono fermamente convinto che noi saremmo molto più efficaci se dicessimo “trasfigurare” piuttosto che “distruggere”. Il mondo contemporaneo in cui dimoriamo, almeno in Europa occidentale, è un mondo fortemente secolarizzato, avulso alla chiesa. Se vogliamo riguadagnare questo mondo a Cristo, se vogliamo noi stessi preservare la nostra identità cristiana in un tale ambiente alienato, allora noi faremmo bene a presentare il nostro messaggio cristiano in termini affermativi piuttosto che di condanna. Dobbiamo accendere una candela piuttosto che maledire la tenebra.
Tre temi cupi
Venendo alla seconda parte del mio intervento, vorrei selezionare sei aspetti della lotta spirituale nel mondo contemporaneo. La mia esposizione non è sistematica né pretende di essere esaustiva. Parlerò in termini di tenebra e di luce. Tre degli aspetti che ho scelto hanno a prima vista un carattere cupo, tre invece riflettono uno spirito più luminoso; ma tutti e sei non sono in fin dei conti negativi ma piuttosto eminentemente positivi.
(1). La discesa agli inferi. L’inferno può essere considerato come l’assenza di Dio, come il luogo in cui Dio non c’è (è tuttavia vero che l’inferno, considerato in maniera più precisa, non è vuoto di Dio, dal momento che – come Isacco il Siro insiste – l’amore di Dio è dovunque). Non è sorprendente che i cristiani nel ventesimo secolo, dimorando in un mondo segnato dal senso dell’assenza di Dio, abbiano interpretato la loro vocazione come un descensus ad inferos. Paul Evdokimov sviluppa questa idea in relazione con il sacramento del battesimo, che costituisce perlatro il fondamento della lotta spirituale del cristiano (come ha insistito fratel Enzo nel suo intervento di apertura). “Parlando della cerimonia dell’immersione al momento del battesimo”, osserva Evdokimov, “san Giovanni Crisostomo annota: «L’azione di scendere nell’acqua e poi risalirne di nuovo simbolizza la discesa di Cristo agli inferi e il suo ritorno da quel luogo». Ricevere il battesimo, quindi, significa non soltanto morire e risorgere con Cristo; significa anche che noi scendiamo all’inferno, che portiamo le stigmate di Cristo sacerdote, la sua premura sacerdotale, la sua ansia apostolica per le sorti di coloro che hanno scelto l’inferno”. Il pensiero di Evdokimov ha molto in comune con le idee di Hans Urs von Balthasar, ma non bisogna dimenticare che, come l’arcivescovo Ilarione Alfeev ha dimostrato in un suo libro recente, la discesa di Cristo agli inferi è soprattutto un’azione di vittoria.
Un santo ortodosso del ventesimo secolo ch ha particolarmente enfatizzato la discesa agli inferi è Silvano dell’Athos: “Mantieni il tuo spirito agli inferi e non disperare”, insegna, aggiungendo che questa è la via per acquisire l’umiltà. Il suo discepolo padre Sofronio insiste che “egli si riferiva a una reale esperienza dell’inferno”. Nelle sue meditazioni, Silvano ricorda il calzolaio di Alessandria, visitato da Antonio, che era solito dire: “Tutti saranno salvati; soltanto io perirò”. Silvano applica queste parole a sé: “Presto io morirò e prenderò dimora nell’oscura prigione dell’inferno, e soltanto io brucerò in quel luogo”.
Tuttavia sarebbe errato interpretare la posizione di Silvano in termini puramente negativi e tetri; bisogna attribuire il giusto peso a entrambi le parti della sua affermazioni: non dice soltanto “mantieni il tuo spirito agli inferi”, ma aggiunge subito dopo “e non disperare”. Altrove egli afferma che la certezza della propria dannazione è una tentazione del demonio. Ci sono, dice, due pensieri che provengono dal nemico: “Tu sei un santo” e “non ti salverai”. San Silvano era profondamente influenzato dagli insegnamenti di Isacco il Siro sul carattere irriducibile dell’amore divino: “Se l’amore non è presente”, egli dice, “allora tutto si fa difficile”; al contrario, quando l’amore è presente, tutto è possibile.
La discesa di Cristo agli inferi e la sua risurrezione trionfante dai morti formano un evento inscindibile, un’azione unica e unita.
(2) Il martirio. La forma particolare che la discesa agli inferi ha assunto durante il ventesimo secolo nella lotta spirituale dei cristiani ortodossi è stata l’esperienza della persecuzione e del martirio. Il secolo scorso è davvero stato per l’oriente cristiano un secolo di martirio per eccellenza. Si ricordi inoltre che, sebbene il communismo è caduto in Russia e nell’Europa orientale, vi sono ancora molti luoghi nel mondo in cui i cristiani – sia ortodossi che non ortodossi – continuano a soffrire persecuzioni (si pensi alla Turchia, all’Irak, al Pakistan, alla Cina, eccetera). Secondo le parole di un prete russo della diaspora, padre Alexander Elchaninov, che morì nel 1934, “il mondo è deforme e Dio lo raddrizza. Questo è il motivo per cui Cristo ha sofferto (e soffre), così come hanno sofferto i martiri, i confessori della fede e i santi; e anche noi, che amiamo Cristo, non possiamo che soffrire altrettanto”. Come indica Silvano, il martirio può essere interiore o esteriore: “Pregare per la gente”, dice, “significa versare il sangue”. Allo stesso tempo, come nel suo apoftegma “mantieni il tuo spirito agli inferi e non disperare”, egli insiste sul reciproco concorrere di tenebra e luce, di disperazione e speranza. Così la sofferenza dei martiri è anche una fonte di gioia: come afferma Silvano, “la sofferenza estrema è alleata con la beatitudine estrema”.
Un martire la cui lotta spirituale ha particolarmente catturato l’immaginazione ortodosso negli ultimi sessant’anni è Maria Skobtsova, morta in una camera a gas di Ravensbrück il 13 marzo 1945, offrendosi probabilmente al posto di un altro prigioniero. Se così avvenne, ciò indica come il martire – allo stesso modo di Cristo stesso, il protomartire – svolge un ruolo vicario, morendo al posto di altri, morendo perché altri possano vivere. Il martire adempie, in modo definitivo e finale, il comando di san Paolo: “portate i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2); questo era anche un tema che madre Maria ha sottolineato nei suoi scritti. In un’antologia di vite dei santi da lei compilata, essa annota la storia di Ioannichio il Grande e della ragazza indemoniata: “Collocò la sua mano sulla testa della ragazza sofferente e disse con tono calmo: «Per la potenza del Dio vivente, io, il suo indegno servo Ioannichio, prendo su di me il tuo peccato, semmai tu abbia peccato … perché le mie spalle sono più robuste delle tue, perché desidero prendere su di me la tua condanna per amore». La ragazza fu curata, mentre Ioannichio condivise la sua agonia, giungendo vicino alla morte prima di emergere, vittorioso, dalla sua lotta con la potenza del male”.
Questo, dunque, è un aspetto molto importante della lotta spirituale: sopportare il martirio, versando il proprio sangue, in maniera visibile o interiormente, per gli altri.
(3) Kenosis. Strettamente legato ai due elementi di cui abbiamo appena parlato – la discesa gli inferi e il martirio – ve n’è un terzo, la kenosis o autosvuotamento. Colui che si impegna nella lotta spirituale si identifica con il Cristo umiliato (vorrei ricordare a questo proposito un libro degno di essere letto ancor’oggi, scritto settant’anni fa da un autore russo, Nadegda Gorodetsky, Il Cristo umiliato nel pensiero russo moderno). Prima di essere imprigionata, Maria Skobsova dimostrò il suo spirito kenotico in maniera impressionante, mostrando grande solidarietà con gli indigenti, gli emarginati, e tutti i reietti dalla società, e anche – quando scoppiò la seconda guerra mondiale – con gli ebrei. “I corpi dei nostri fratelli in umanità”, scriveva, “devono essere trattati con maggior cura rispetto ai nostri. L’amore cristiano ci insegna non soltanto a fare doni spirituali ai nostri fratelli, ma anche doni materiali. Perfino la nostra ultima camicia, il nostro ultimo pezzo di pane deve essere donato loro. L’elemosina individuale e ogni tipo possibile di opera sociale sono allo stesso modo legittimi e necessari”.
Un santo della tradizione ellenica che ha mostrato questo spirito kenotico in un modo considerevole è Nectario di Pentapoli, morto nel 1920. Le storie circa la sua umiltà abbondano. Giovane vescovo di Alessandria, qualora venica attaccato, rifiutava ogni misura di ritorsione e di difesa contro i calunniatori. Quando più tardi era direttore della scuola teologica Rizareion di Alessandria, avvenne che l’addetto alle pulizie si ammalò; per impedire che il posto andasse a qualche altro Nectario per molti si alzò prestissimo al mattino per spazzare i corridoi e pulire le latrine, finché l’uomo non fu di nuovo in grado di tornare al suo lavoro. Negli ultimi anni di vita, i visitatori che lo incontravano mentre lavorava nel giardino del monastero che aveva fondato lo scambiavano per un operaio, senza poter indovinare che lui invece era un vescovo. In questo e in diversi altri modi Nectario obbedì alle parole di san Paolo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli … svuotò se stesso” (Fil 2,5.7).
Luce nella tenebra
Descrivendo la lotta spirituale, san Paolo ne sottolinea il carattere antinomico: “Nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama; … come moribondi, e invece viviamo; … come afflitti, ma sempre lieti; … come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto” (2Cor 6,8-10). Bilanciamo ora questi tre elementi cupi della lotta spirituale con tre elementi più gioiosi che sono di particolare importanza nel mondo contemporaneo.
(1) La trasfigurazione. Quando stavamo analizzando in precedenza i diversi modi in cui la guerra contro le passioni può essere compresa, avevo suggerito che in questo momento della storia è più saggio parlare a noi stessi in termini di “trasfigurazione” piuttosto che di “mortificazione” o di “sradicamento”. Il mistero della trasfigurazione ha un valore particolare per noi nel tempo presente. La nostra lotta spirituale deve certamente coinvolgere elementi quali la rinuncia, lo sforzo ascetico, il sudore, il sangue e le lacrime, il martirio interiore e forse anche esteriore; ma il reale valore di tutto ciò viene perduto se esso non viene illuminato dalla luce increata del Tabor. A questo proposito, non è certo una coincidenza che il santo più influente nella vita e nell’esperienza dell’ortodossia del ventesimo secolo sia stato Serafino di Sarov, che è proprio un santo della trasfigurazione. Quando visitai la Grecia per la prima volta, cinquantacinque anni fa, san Serafino era praticamente sconosciuto; mentre ora, ogni volta che vado sul suolo ellenico, vedo la sua icona nelle chiese e nelle case, e nei monasteri frequentemente incontro monaci e monache che si chiamano Serafino o Serafina in onore del santo di Sarov. Le cose vanno davvero come dovrebbero, in quanto egli è davvero un santo per il nostro tempo.
Nello stesso tempo non facciamo del sentimentalismo nei riguardi del santo di Sarov né semplifichiamo troppo la sua lotta spirituale. Facciamo bene a ricordare che egli si vestiva in bianco e non in nero, come la tradizione monastica voleva; che chiamava i suoi visitatori “mia gioia” e li salutava durante tutto l’anno con il saluto pasquale “Cristo è risorto”; che il suo volto risplendeva di gloria in presenza del suo discepolo Nicola Motovilov. Ma non dimentichiamo gli assalti demoniaci che Serafino ha dovuto sostenere mentre pregava sulla roccia accanto al suo eremo e sentiva le fiamme dell’inferno crepitare intorno a lui; non dimentichiamo il dolore fisico che soffriva dopo essere stato azzoppato dall’assalto di tre ladri nel bosco; non dimentichiamo le incomprensioni che dovette sopportare da parte del suo stesso abate e le calunnie che lo perseguitarono fino alla morte. Davvero egli comprese ciò che san Paolo intendeva quando diceva: “afflitti, ma sempre lieti”. Nella lotta spirituale la trasfigurazione e il portare la croce sono due elementi inseparabili.
(2) L’eucaristia. In precedenza è stato detto che il battesimo costituisce il fondamento della lotta spirituale del cristiano. Il battesimo tuttavia non può essere separato dalla santa comunione, e di conseguenza anche l’eucaristia gioca un ruolo basilare nella nostro combattimento spirituale. È vero che nel primo periodo patristico molti autori ascetici quali Giovanni Climaco e Isacco il Siro facevano poco o nessun riferimento all’eucaristia, ma nella nostra lotta spirituale oggi la dimensione eucaristica deve essere esplicitata e posta in primo piano. È significativo che questo è esattamente quello che è stato fatto da una grande figura di prete celebrante all’inizio del ventesimo secolo, Giovanni di Kronstadt. “L’eucaristia è un miracolo continuo”, era solito dire; ed egli entrò appieno in questo “miracolo continuo” celebrando quotidianamente la divina liturgia. L’intensità della sua celebrazione eucaristica sbalordiva i suoi contemporanei: san Silvano, per esempio, parla della “forza della sua preghiera” e aggiunge: “In tutto il suo essere [era] una fiamma d’amore”. Giovanni insisteva che tutti i presenti alla liturgia dovevano ricevere la comunione insieme a lui. Per sua influenza e per l’influenza di altri, la prassi di ricevere la comunione è di fatto divenuta più frequente nella chiesa ortodossa del ventesimo secolo; eppure vi sono ancora in molti luoghi in cui i fedeli si accostano al sacramento soltanto tre o quattro volte l’anno: ciò è certamente deplorevole. Nel mondo contemporaneo la nostra lotta spirituale deve essere, nel modo più pieno possibile, una lotta eucaristica.
Al centro della divina liturgia, immediatamente prima dell’epiclesi dello Spirito santo, il diacono eleva le sante offerte mentre il prete recita: “Offriamo ciò che è tuo prendendolo da ciò che è tuo, in ogni cosa e per ogni cosa (ta za ek ton zon soi prospherontes, kata panta kai dia panta)”. Questo ci porta a considerare un aspetto della liturgia che ha una rilevanza particolare per la nostra lotta spirituale nel mondo contemporaneo: la dimensione cosmica dell’eucaristia. È significativo che nell’eucaristia offriamo i doni non soltanto “per tutti gli esseri umani” (dia pantas), ma anche “per tutte le cose” (dia panta). L’oblazione eucarsitica abbraccia in tutta quanta la sua ampiezza non soltanto l’umanità ma l’intero regno della natura, abbraccia ogni cosa; ne consegue che l’eucaristia ci investe di una responsabilità ecologica; ci impegna a proteggere e ad amare non soltanto i nostri fratelli in umanità ma tutte le cose viventi, e non soltanto queste, ma anche a proteggere e ad amare l’erba, gli alberi, le rocce, l’acqua e l’aria. Celebrando l’eucaristia con piena consapevolezza noi guardiamo il mondo intero come un sacramento.
La nostra lotta spirituale, pertanto, non è meramente antropocentrica: noi siamo salvati non dal mondo ma con il mondo, e pertanto lottiamo per santificare e per ridonare a Dio non soltanto noi stessi ma l’intera creazione. Questa portata ecologica della nostra lotta spirituale è stata particolarmente enfatizzata dal patriarcato ecumenico negli ultimi due decenni. Il patriarca Dimitrios e il suo successore, l’attuale patriarca Bartolomeo, hanno stabilito l’1 settembre, giorno di apertura dell’anno ecclesiastico, come “giorno per la salvaguardia dell’ambiente”, da osservarsi (così ci si auspica) non soltanto da parte degli ortodossi ma anche da parte degli altri cristiani. “Consideriamoci ciascuno per quanto gli compete personalmente responsabili del mondo affidato da Dio nelle nostre mani”, ha affermato il patriarca Dimitrios nel suo messaggio natalizio del 1988, “tutto ciò che il Figlio di Dio ha assunto nel suo corpo attraverso la sua incarnazione non deve perire, ma deve diventare un’offerta eucaristica al Creatore, un pane datore di vita condiviso nella giustizia e nell’amore con gli altri, un inno di pace per tutte le creature di Dio”. Secondo le parole di Silvano dell’Athos, “il cuore che ha imparato ad amare prova compassione per tutta la creazione”. Questa tenerezza cosmica, come ci ha ricordato dom André Louf, è un leitmotiv in Isacco il Siro.
(3) La preghiera del cuore. Per quanto importante siano gli aspetti eucaristici e liturgici della lotta spirituale, nello stesso tempo è necessario dare enfasi anche alla lotta per la preghiera interiore. Nella lotta spirituale del ventesimo secolo, la preghiera interiore ha significato, per gli ortodossi, preminentemente ma non esclusivamente la preghiera di Gesù. L’importanza dell’invocazione del nome santo è giunta a essere molto apprezzata negli ultimi cento anni grazie soprattutto all’influenza di due libri: Il racconto di un pellegrino e la Filocalia; entrambi i volumi hanno riscosso un successo inatteso in occidente. Probabilmente la preghiera di Gesù viene oggi praticata quotidianamente da molta più gente che in passato: il nostro tempo non è soltanto un tempo di secolarizzazione!
Ecco dunque alcuni elementi della lotta spiritual nel mondo contemporaneo: da una parte la discesa agli inferi, il martirio e la kenosis; dall’altra la trasfigurazione, l’eucaristia e la preghiera del cuore. Le due triadi non devono essere contrapposte bensì combinate insieme, come ha fatto Giovanni Climaco (e qui richiamo l’intervento di padre Ioustinos) coniando il termine charmolype, “gioiosa afflizione”, e parlando di charopoion penthos, “dolore che crea la gioia”. Questi due aspetti complementari della lotta spirituale sono ben riassunti in due brevi affermazioni di Serafino di Sarov che cerco di tenere sempre in mente: “Dove non c’è dolore non c’è salvezza” e “Lo Spirito santo riempie di gioia tutto ciò che tocca”.
KALLISTOS WARE Metropolita di Diokleia
da www.natidallospirito.it
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