lunedì 16 maggio 2011

Piccoli robot

Nasce un bambino. Nella migliore delle ipotesi viene al mondo con un parto spontaneo (chiamarlo “naturale” è troppo, per me) e la mamma lo accudisce con affetto. A casa, chilometri di stoffe e chili di tessuto semiplastificato, assorbente e sbiancato (si legga “pannolino usa e getta”) lo attendono con ansia per avvolgerlo teneramente nelle lunghe ore che dovrà trascorrere nella culla.
Se ha avuto la fortuna di nascere da una madre che ha potuto frequentare un corso di accompagnamento alla nascita e alla quale è stato concesso il lusso di potersi permettere d’informarsi sul tipo di educazione che desidera dare a suo figlio e se viene accolto in un ospedale dove i sanitari hanno potuto formarsi in un certo modo approfondendo non solo la materia che debbono acquisire per rispettare un profilo professionale, ma hanno scelto anche di approfondire determinati argomenti (parto naturale, allattamento al seno… tutti argomenti la cui comprensione risulta molto ostica a ciò che vediamo nelle nostre cliniche), forse questa creatura (che, ricordiamolo, non pretende nulla se non l’amore dei genitori) riceverà del latte materno.
Ma se la madre ha dovuto lavorare sino alle prime contrazioni, non ha ricevuto suggerimenti sui testi giusti ma ha dovuto solamente sfogliare qualche terribile lettura i cui autori sono il sensibilissimo Estivill o l’autorevole e plurilaureata “tata” Lucia (ancor meglio se ha letto entrambi), possiamo calcolare che la madre vivrà le prime settimane di allattamento imponendo al proprio figlio (neonato) una sfilza di regole alla Full Metal Jacket di kubrickiana memoria. Il pargolo dovrà:
* mangiare a orari
* dormire a orari
* dormire da solo
* iniziare l’assaggio di frutta in omogenizzato a tre mesi e le
pappine di pollo a sei
* fare a meno della mamma a causa di una legge sulla maternità che obbliga la donna a rientrare molto presto sul posto di lavoro
* imparare a stare con chiunque: nonne, zie, tate…
* crescere esponenzialente secondo le tabelle di crescita del pediatra
* subire TUTTI (e dico tutti) i vaccini
* guarire dalle infezioni nel tempo più veloce possibile
Ottimo. Mettiamo il caso che questo portento di figliolo esegua tutto quello che è elencato prima. Come in un film, vediamo il protagonista crescere secondo le regole dettate dal costume odierno: ci si veste come detta la moda, si guarda la tivù, si viaggia su internet, si riceve il gameboy, si fanno 4 attività extrascolastiche (compresa la Catechesi Cattolica anche se alla Messa non si va, ma tutti lo fanno e allora bisogna farlo: vorrai mica non sposarti in Chiesa senza bombonierecenalussuosavacanzeaiCaraibi, no?) e si mangiano tanti kinder.
Poi, improvvisamente e quasi in sordina, eccola lì: la PUBERTA’: ormoni che girano come pazzi nel circolo sanguigno e milioni di imput sessuali, erotici e pornografici che la nostra tivù (che tutto ci spiega, che a tutto provvede) propina al nostro Eroe. Ci pensa lei insieme a inetrnet a spegare al Nostro, come si fa. Se l’Eroe è maschio dovrà avere determinate caratteristiche: bello, alla moda, intelligente q.b. (come la quantità di sale nelle ricette del pane) e pieno di gadgets.
Se è femmina sarà: bella, alla moda, non troppo intelligente (altrimenti come fa a diventare velina?), provvista di french manicure e piercing all’ombelico. Per entrambi, ovviamente: cellulare, computer, motorino e soprattutto vestiti.
Ma… C’è un ma nella nostra tragicomica vicenda. Succede, infatti, che le medesime fonti che i genitori sfruttano per capire come deve comportarsi un bravo genitore e come deve essere un bravo figliolo (di solito sono testi che hanno titoli che sfruttano la seconda persona plurale, come “Fate i bravi”, “Fate la nanna”… o show televisivi dove una persona dice ai genitori cosa fare), ammoniscano i diligenti genitori sull’importanza che ha, per il proprio figlio e per la propria figlia, lo sviluppo di una personalità equilibrata e soggettiva.
Si dilungano, le fonti educative, sui danni della televisione, dei videogiochi e della moda. Propinano video angoscianti sui rischi dell’omologazione che la società dà ai giovani e sui rischi che si fanno correre ai figli, facendoli possedere un motorino o una macchina.
Attenzione, perchè la situazione è delicata e non risalta subito la realtà dei fatti: prima il bambino cresce con un susseguirsi di doveri ai quali i genitori lo obbligano. Cosa accade alla personalità di un bambino quando ogni suo desiderio, bisogno, richiesta, è pilotata, guidata o tacciata di non essere quella giusta?
Immaginiamo il nostro neonato: ha bisogno di stare con la mamma, del suo seno (chiamarla col suo nome è troppo forte? si può dire “mammella” in tivù, signori del palinsesto?) e del contatto. No: “tata” Maria sa meglio di lui di cosa ha bisogno! “Tata” Giuditta sciorina conoscenze di puericultura insegnando alla madre che il suo istinto (quello di cullare, allattare, dormire con il proprio bambino), fa male al diretto interessato. Lo vizia. Lo renderà dipendente da lei e lo rovinerà. Così le madri scelgono di seguire le indicazioni della “tata” o del pediatra bontempone di turno e si ostinano ad allattare a orari, a ninnarlo solo per farlo stancare ma non per addormentarlo o, meglio ancora, a lasciarlo piangere.
Cosa succede nella mente, ma anche nell’anima, del piccolo? Capisce. Capisce che il suo bisogno di fame non è importante, gli è chiaro che l’esigenza fisiologica di contatto non è meritata e che, nella vita (che, non scordiamoci, è sofferenza) si deve fare ciò che gli viene detto.
Ecco che egli, diligentemente, esegue il compito: impara che bisogna vestirsi, comportarsi e che deve obbedire al comune sentire, al conformismo.
Ecco l’inghippo. Nei figli non c’è nulla di sbagliato. Loro si abituano, dalla culla in poi, a dover fare o essere in un modo.
Ovvio, mi pare, che risulti impossibile che, nel momento della resa dei conti, nel tempo della raccolta dei frutti, egli non sia la pianta che i genitori desideravano. Abbiamo (tutti noi, la società) una generazione di figli che saprà dormire nel proprio letto e non saprà dire di no alla pasticca di extasi? Non lo so: forse questo è un sillogismo semplicistico della situazione.
Una cosa è certa: molti ragazzi vengono su con una personalità di carta velina. lLi abituiamo a essere comandati, a non scegliere, al fatto di non avere esigenze o che queste siano inesorabili vizi da cancellare dalla loro anima e da purificare, e poi cosa facciamo? Imponiamo loro di essere forti. Di far valere i loro bisogni, non quelli dei messaggi pubblicitari.
Ma andiamo a riempire vasi talmente incrinati da ore ed ore passate a piangere per il bisogno di una coccola, di una carezza, che i vasi si rompono tra le nostre dita.
I nostri figli hanno talmente subìto le decisioni altrui (alcuni genitori applicano regole sul sonno perché hanno ricevuto la medesima educazione, altri lo fanno perché facenti patre di una generazione in cui è il pediatra a dire come fare ad allevare bene la prole, o, ancora meglio, è il furbo di turno a scrivere testi degni di un lager nazista, altri ancora perchè non sanno da che parte “sbattere la testa” per educare il figlio) che, nel momento della loro vita in cui sono più delicati, in cui il loro stelo è sottile sottile, non sono capaci d’imporsi.
Non sono capaci di essere razionali e di scegliere la cosa migliore per loro. Credono di saperlo fare imponendosi magari con la violenza, ma ne sono schiavi.
Ricordo le parole del confessore di un ragazzo che ammazzò madre, padre e fratello, quando lo descriveva: “…non è cattivo, è vuoto”.
I bambini sono gli adulti di domani. Se davvero desideriamo un figlio forte (forte non significa capace d’imporsi con la forza fisica o con la violenza), in grado di scegliere, di assumersi responsabilità, pensiamo al fatto che dobbiamo aiutare la sua personalità a venir fuori.
Fidiamoci del suo istinto, fidiamoci delle sue esigenze fisiche e psicologiche. E non solo, cara Mamma e caro Papà: amate i vostri figli. Ciò basta.
Rachele Sagramoso

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