lunedì 16 maggio 2011

Come meditare

Allorché il Sig. X…, giovane filosofo francese, arrivò al Monte Athos, aveva già letto un certo numero di libri sulla spiritualità ortodossa, in particolare la Piccola Filocalia della preghiera del cuore e i Racconti di un pellegrino russo. Ne era stato sedotto senza esserne veramente convinto.Una liturgia, in rue Daru a Parigi, gli aveva ispirato il desiderio di trascorrere qualche giorno al Monte Athos, in occasione di una vacanza in Grecia, per saperne un po’ di più sulla preghiera e il metodo di orazione degli esicasti, questi uomini silenziosi in cerca di “esichia”, ossia di pace interiore.
Sarebbe troppo lungo raccontare dettagliatamente come giunse ad incontrare il padre Serafino, che viveva in un eremitaggio vicino a San Panteleimon (il Roussikon, come lo chiamano i Greci). Diciamo solo che il giovane filosofo era un po’ infastidito. Non trovava i monaci “all’ altezza” dei suoi libri.
Diciamo pure che, se aveva letto parecchio sulla meditazione e la preghiera, non aveva ancora pregato veramente, ne aveva praticato una qualche particolare forma di meditazione e, in fondo, ciò che egli chiedeva non era un discorso ulteriore sulla preghiera o sulla meditazione, ma una “iniziazione” che gli permettesse di viverle e conoscerle dal di dentro, per esperienza e non per sentito dire. Padre Serafino aveva una reputazione ambigua presso i monaci vicini. Alcuni l’accusavano di levitare, altri di latrare, altri ancora lo consideravano un contadino ignorante, altri come un autentico staretz ispirato dallo Spirito Santo, capace di dare consigli profondi e di leggere nei cuori.
Quando si arrivava alla porta del suo eremo, padre Serafino aveva l’ abitudine di osservare il nuovo venuto nel modo più sfacciato: dalla testa ai piedi, durante cinque minuti, senza rivolgere la minima parola. Coloro che non fuggivano di fronte all’esame potevano allora udire la sferzante diagnosi del monaco. ”Non e sceso al di sotto del mento”. “Non parliamone. Non è nemmeno entrato”. “Non è possibile, che meraviglia! É sceso già fino alle ginocchia”.
Egli parlava, ovviamente, dello Spirito Santo e della sua discesa più o meno profonda nell’uomo. Qualche volta nella testa, ma non sempre nel cuore o nelle viscere Giudicava così la santità di qualcuno, dal grado di incarnazione dello Spirito. Per lui, l’uomo perfetto, l’ uomo trasfigurato, era quello interamente abitato dalla Presenza dello Spirito Santo, dalla testa ai piedi. “Questo l’ho visto una sola volta, presso lo staretz Silvano. Lui, diceva, era veramente un uomo di Dio, pieno di umiltà e di maestà”.
Il giovane filosofo era ben lontano da tali traguardi: in lui lo Spirito Santo si era fermato, o piuttosto non aveva trovato passaggio che “fino al mento”. Quando chiese a Padre Serafino di parlargli della preghiera del cuore e dell’orazione pura secondo Evagrio, Padre Serafino cominciò a latrare. Ciò non scoraggiò il giovane. Insistette… Allora il monaco gli disse: “Prima di parlare di preghiera del cuore, impara a meditare come una montagna…” e gli indicò un’enorme roccia. “Chiedile come fa a pregare. Poi torna da me”.
Meditare come una montagna
Cominciò così per il giovane filosofo una vera iniziazione al metodo dell’orazione esicastica. La prima indicazione che gli venne data concerneva la stabilità.Un buon abbarbicamento al suolo. Effettivamente, il primo consiglio da darsi a chi vuole meditare non è di ordine spirituale, ma fisico: siediti.
Sedersi come una montagna vuol dire anche prendere peso: essere pesante di presenza. I primi giorni, il giovane faceva fatica a rimanere così, immobile, le gambe incrociate, il bacino leggermente più alto delle ginocchia (è in tale posizione che aveva trovato maggiore stabilità). Una mattina sentì realmente che cosa voleva dire “meditare come una montagna”.
Era là con tutto il suo peso, immobile.
Silenzioso, sotto il sole, era una cosa sola con la montagna. La sua nozione del tempo era completamente cambiata. Le montagne hanno un altro tempo, un altro ritmo. Essere seduto come una montagna è avere l’eternità davanti a sé e l’atteggiamento giusto per colui che vuole entrare nella meditazione; sapere che c’é l’eternità dietro, dentro e davanti a sé. Prima di costruire una chiesa, doveva esse re pietra, e su questa pietra (questa imperturbabile solidità della roccia) Dio poteva costruire la sua chiesa e del corpo dell’uomo fare il suo tempio. É così che comprendeva il senso della parola evangelica: “Tu sei pie tra e su questa pietra edificherò la mia chiesa”.
Rimase così parecchie settimane. La cosa più dura era passare ore e ore “a far niente”. Bisognava imparare di nuovo ad essere, semplicemente ad essere, senza scopo ne motivo. Meditare come una montagna era la meditazione stessa dell’Essere, “del semplice fatto di essere”, prima di ogni pensiero, di ogni piacere e di ogni dolore.
Padre Serafino lo andava a trovare ogni giorno, condividendo con lui i suoi pomodori e qualche oliva. Malgrado questo regime così frugale, il giovane sembrava aver preso peso. La sua andatura era più tranquilla. Pareva che la montagna gli fosse entrata nella pelle. Sapeva prendere tempo, accogliere le stagioni, mantenersi tranquillo e silenzioso come una terra a volte arida e dura, ma anche, certe volte, come un versante di collina che attende il raccolto. Parimenti, meditare come una montagna aveva modificato il ritmo dei suoi pensieri.
Aveva imparato a “vedere” senza giudicare, come se avesse dato a tutto ciò che cresce sulla montagna il “diritto di esistere”. Un giorno, alcuni pellegrini, impressionati dalla qualità della sua presenza, scambiandolo per un monaco gli chiesero una benedizione. Egli non rispose, imperturbabile come la pietra. Avendolo saputo, la sera stessa Padre Serafino comincio a bastonarlo di santa ragione…
Allora il giovane cominciò a lamentarsi. “Ti credevo diventato stupido come i ciottoli della strada… La meditazione esicastica ha il radicamento, stabilità della montagna, ma il suo fine non è di fare di te un ceppo morto bensì un uomo vivo”. Prese il giovane uomo per il braccio e lo condusse al fondo del giardino dove fra le erbe selvagge si poteva vedere qualche fiore.“Ora, non si tratta più di meditare come una montagna sterile. Impara a meditare come un papavero, ma non dimenticare per questo la montagna…”
Meditare come un papavero
È così che il giovane imparò a fiorire…
La meditazione e innanzi tutto un mettersi tranquillo, immobile, ed è ciò che la montagna gli aveva insegnato. Ma la meditazione e anche un “orientamento”, ed è ciò che gli insegnava ora il papavero. Volgersi verso il sole, volgersi dal più profondo di se verso la luce. Farne l’ aspirazione di tutto il proprio sangue, di tutta la propria linfa. Questo orientarsi verso il bello, verso la luce lo faceva talvolta diventare rosso come un papavero. Come se la “bella luce” fosse quella di uno sguardo che gli sorridesse e da lui attendesse qualche profumo… Dal papavero apprese ugualmente che, per persistere nel suo orientamento il fiore deve avere “lo stelo eretto”.
Cominciò allora a raddrizzare la colonna vertebrale.
Questo gli procurò qualche difficoltà, perché in certi testi della Filocalia aveva letto che il monaco doveva disporsi leggermente curvo. Qualche volta perfino con dolore. Lo sguardo volto verso il cuore e le viscere. Chiese spiegazioni al Padre Serafino. Gli occhi dello staretz lo guardarono con malizia: “Questo valeva per i robustissimi uomini di una volta. Erano pieni di energia e occorreva riportarli un poco all’umiltà della loro condizione umana. Curvarsi un po’ nel tempo della meditazione non gli faceva mica male… Tu piuttosto, aven dobisogno di energia, nel momento della meditazione raddrizzati, sii vigile, tienti diritto verso la luce, ma sii senza orgoglio… D’altronde, se osservi bene il papavero, esso t’insegnerà non soltanto la dirittura dello stelo , ma anche una certa flessibilità sotto le ispirazioni del vento e poi anche una certa umiltà…”
In effetti, l’insegnamento del papavero si trovava anche nella sua fugacità e fragilità. Bisognava imparare a fiorire, ma anche ad appassire. Il giovane comprese meglio le parole del profeta: “Ogni uomo è come l’erba, e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, appassisce il fiore… Le nazioni sono come una goccia di un secchio… I signori della terra sono appena piantati, appena i loro steli hanno messo radici nella terra… seccano e l’uragano li strappa via come paglia” (Is 40).
La montagna gli aveva dato il senso dell’ eternità, il papavero gli insegnava la fragilità del tempo: meditare e conoscere l’Eterno nella fugacità dell’istante, un istante diritto, bene orientato. In altre parole, fiorire il tempo che ci è dato di fiorire, amare il tempo che ci e dato di amare, gratuitamente, senza perché, senza per chi. Per che cosa fioriscono, i papaveri?
Imparò così a meditare “senza scopo ne interesse”, per il piacere d’essere e di amare la luce “L’amore è ricompensa a se stesso”, diceva san Bernardo.
“La rosa fiorisce perché fiorisce, senza perché”, diceva ancora Angelo Silesio. “É la montagna che fiorisce nel papavero, pensava il giovane. É tutto l’universo che medita in me. Possa io arrossire di gioia per tutta la durata della mia vita”. Senza dubbio questo era troppo. Padre Serafino cominciò a scuotere il filosofo e di nuovo lo prese per un braccio.
Lo trascinò per un sentiero scosceso fin sulla riva del mare, in una piccola insenatura deserta. “Smettila di ruminare come una mucca il buon significato dei papaveri. Abbi anche il cuore marino. Impara a meditare come l’oceano”.
Meditare come l’oceano
Il giovane si avvicinò al mare. Aveva acquisito un buon modo di stare seduto ed un portamento eretto. Era in buona positura. Che cosa gli mancava? Che cosa poteva insegnargli lo sciacquio delle onde? Si alzò il vento. Il flusso e il riflusso del mare si fecero più profondi e ciò risvegliò in lui il ricordo dell’oceano. In effetti, il vecchio monaco gli aveva pur consigliato di meditare “come l’ oceano” e non come il mare. Come aveva fatto ad indovinare che il giovane aveva passato lunghe ore in riva all’Atlantico, soprattutto la notte, e che già conosceva l’ arte di accordare il proprio respiro al grande respiro delle onde? Inspiro, espiro… poi: sono inspirato, sono espirato.
Mi lascio portare dal respiro, come ci si lascia portare dalle onde… Così, faceva il morto portato dal ritmo della respirazione oceanica. Ciò l’aveva condotto talvolta sull’ orlo di strani deliqui, ma la goccia d’acqua che una volta “si dileguava nel mare” oggi custodiva la propria forma, la propria coscienza. Era l’effetto della positura? Del suo radicamento nella terra? Non era più portato dal ritmo profondo della respirazione. La goccia d’acqua conservava la propria identità e tuttavia sapeva di “essere una” con l’oceano. É così che il giovane uomo imparò che meditare è respirare profondamente, è abbandonare al suo corso il flusso e riflusso del respiro.
Apprese ugualmente che, se vi erano delle onde in superficie, il fondo dell’oceano rimaneva tranquillo. I pensieri vanno e vengono come schiuma, ma il fondo dell’essere rimane immobile. Meditare a partire dalle onde che siamo per lasciarsi annegare e mettere radici nel fondo dell’ oceano. Tutto ciò diventava in lui ogni giorno un poco più vitale, ed egli ricordava le parole di un poeta che l’avevano segnato al tempo della sua adolescenza: “L’esistenza e un mare pieno di onde. Di questo mare la gente comune non percepisce che le onde. Guarda come dalle profondità del mare innumerevoli onde salgono in superficie, mentre il mare rimane nascosto nelle onde”. Oggi il mare gli sembrava meno “nascosto nelle onde”, l’unicità di tutte le cose gli pareva più evidente, e ciò non aboliva la molteplicità. Egli aveva minor bisogno di contrapporre il fondo e la forma, il visibile e l’invisibile.
Tutto costituiva l’oceano unico della vita.
Nel fondo del suo respiro non c’era forse la “Ruah”? Il “pneuma”? Il grande respiro di Dio?
“Colui che ascolta attentamente la sua respirazione, gli disse allora il vecchio monaco Serafino, non e lontano da Dio. Ascolta chi giace al limite della tua aspirazione. Ascolta chi si trova al principio della tua inspirazione”. Effettivamente c’erano al principio e alla fine di ogni respiro alcuni secondi di silenzio, più profondi del flusso e riflusso delle onde, c’era qualcosa che l’oceano sembrava portare…
Meditare come un uccello
“Essere in una buona positura, avere un portamento eretto verso la luce, respirare come l’oceano non è ancora la preghiera esicastica, gli disse Padre Serafino. Tu devi imparare ora a meditare come un uccello”, e lo condusse in una piccola cella accanto al suo eremitaggio dove vivevano due tortore. Il tuba re di quelle bestioline gli parve dapprima incantevole, ma, dopo poco, cominciò a infastidirlo. In effetti sceglievano sempre il momento in cui cadeva dal sonno per tubare le più tenere effusioni. Chiese al vecchio monaco che cosa significava tutto ciò e se quel la commedia doveva durare ancora a lungo. La montagna, l’oceano, il papavero li aveva accettati suo malgrado (per quanto si chiedesse che cosa vi fosse di cristiano in tutto ciò), ma proporgli adesso questo languido volatile come maestro di meditazione, era proprio troppo!
Padre Serafino gli spiegò che nell’Antico Testamento la meditazione è espressa con dei termini della radice “haga”, reso più sovente in greco da mélété – meletan, e in latino da meditari – meditatio. Nel suo senso primitivo la radice di questo termine significa “mormorare a mezza voce”. É usata parimenti per designare grida d’ animali, ad esempio il ruggito del leone (Is 31, 4), il pigolio della rondine e il canto della colomba (Is 38, 14), ma anche il brontolio dell’orso. “Al monte Athos non ci sono orsi. É per questo che ti ho condotto dalle tortore, ma l’insegnamento è il medesimo. Bisogna meditare con la gola, non soltanto per accogliere il respiro, ma anche per mormorare, giorno e notte, il nome di Dio….
Quando sei felice, canterelli, quasi senza accorgertene qualche volta mormori parole senza significato, e quel mormorio fa vibrare tutto il tuo corpo di gioia semplice e serena. Meditare e mormorare come la tortora, lasciar salire in te quel canto che viene dal cuore, così come hai imparato a lasciar salire in te il profumo che viene dal fiore… Meditare, è respirare cantando
Senza troppo soffermarti per il momento al suo significato, ti propongo di ripetere, mormorare, canticchiare ciò che è nel cuore di tutti i monaci dell’Athos: “Kyrie eleison, Kyrie eleison…”.
Ciò non piaceva troppo al giovane filosofo. In occasione di certe messe di matrimonio o di funerale aveva già sentito quell’invocazione, tradotta con “Signore pietà” Il monaco Serafino sorrise: “Sì, questo e uno dei significati di tale invocazione, ma ve ne sono ben altri. Vuol dire anche: “Signore, manda il tuo Spirito…! Che la tua tenerezza sia su di me e su tutti, che il tuo Nome sia benedetto”, ecc. Ma non cercare troppo di impadronirti del significato di questa invocazione, esso ti si rivelerà da sé.
Per il momento sii sensibile e attento alla vibrazione che essa suscita nel tuo corpo e nel tuo cuore. Cerca di armonizzarla quietamente con il ritmo del tuo respiro. Quando i pensieri ti tormentano, ritorna dolcemente a quell’invocazione, respira più profondamente , tieniti diritto e immobile e incomincerai a conoscere un inizio di “esichia”, la pace che Dio dà senza lesinare a coloro che lo amano”.
A capo di alcuni giorni il “Kyrie eleison” gli divenne un poco più familiare. Lo accompagnava come il ronzio accompagna l’ape quando fa il miele. Non sempre lo ripeteva con le labbra. Allora il ronzio diventava più interiore e la sua vibrazione più profonda.
Il “Kyrie eleison”, di cui aveva rinunziato a “cogliere” il senso, lo conduceva talvolta in un silenzio sconosciuto. Si ritrovava nello stato d’animo dell’apostolo Tommaso quando vide il Cristo risorto: “Kyrie eleison” “mio Signore e mio Dio”.
L’invocazione lo immergeva poco a poco in un clima di rispetto intenso verso tutto ciò che esiste, ed anche di adorazione per ciò che è nascosto e si trova alla radice di ogni esistenza. Padre Serafino allora gli disse : “Adesso non sei lontano dal meditare come un uomo. Debbo insegnarti la meditazione di Abramo”.
Meditare come Abramo
Fin qui l’insegnamento dello staretz era di ordine naturale e terapeutico.
Gli antichi monaci, secondo la testimonianza di Filone Alessandrino, erano in effetti dei “terapeuti”. Il loro ruolo, prima di condurre all’illuminazione , era di guarire la natura, di metterla nelle migliori condizioni per poter ricevere la grazia, poiché la grazia non contraddice la natura, ma la reintegra e la completa. É ciò che faceva il vecchio monaco con il giovane filosofo insegnandogli un metodo di meditazione che certi avrebbero potuto considerare come “puramente naturale”. La montagna, il papavero, l’oceano , l’uccello. Altrettanti elementi della natura che ricordano all’uomo che, prima di andare lontano, deve cogliere i diversi livelli dell’essere, o meglio i diversi regni di cui e composto il macrocosmo. Il regno minerale , il regno vegetale, il regno animale… L’uomo ha perso il contatto con il cosmo, con la roccia, con gli animali e questo non senza provocare in lui ogni sorta di malesseri: malattie, insicurezza, ansietà. Egli si sente “di troppo”, estraneo al mondo.
Meditare e innanzi tutto entrare nella meditazione e nella lode dell’universo, perché, dicevano i padri, “tutte queste cose sanno pregare prima di noi” L’uomo è il luogo dove la preghiera del mondo prende coscienza di se stessa. L’ uomo esiste per dare un nome a ciò che le creature lodano balbettando… Con la meditazione di Abramo, noi entriamo in una nuova e più alta coscienza che si chiama fede, ossia l’adesione dell’intelligenza e del cuore a quel “Tu” che É, che traspare nella molteplice intimità di tutti gli esseri. Tali sono l’esperienza e la meditazione di Abramo: dietro il fremito delle stelle vi è qualcosa di più che le stelle, una Presenza difficile da nominare, che nessuno può chiamare per nome e che tuttavia ha tutti i nomi….
È qualcosa di più dell’ universo e che tuttavia non può essere compreso se non nell’ universo. La differenza fra Dio e la natura è la differenza che vi è fra l’azzurro del cielo e l’azzurro di uno sguardo… Al di là di tutti gli azzurri Abramo era alla ricerca di quello sguardo…
Dopo avere appreso la positura tranquilla e immobile, l’abbarbicamento, il positivo orientamento verso la luce, il respiro degli oceani, il canto interiore, il giovane era in tal modo invitato ad un risveglio del’cuore. “Ecco, tutt’un tratto sei qualcuno”. É proprio del cuore, effettivamente, personalizzare ogni cosa e, in questo caso, personalizzare l’Assoluto, la Sorgente di tutto ciò che vive e respira, darle un nome, chiamarla “Mio Dio, Mio Creatore” e camminare alla sua presenza. Per Abramo meditare e mantenere il contatto con questa Presenza sotto le apparenze più svariate. Questa forma di meditazione entra nei dettagli concreti della vita di ogni giorno.
L’episodio della quercia di Mamre ci mostra Abramo “seduto all’entrata della tenda, nell’ora più calda del giorno”, e là accoglie tre stranieri che si rivelano essere degli inviati di Dio “Meditare come Abramo, diceva Padre Serafino, è praticare l’ospitalità; il bicchiere d’acqua che dai a colui che ha sete non ti allontana dal silenzio ti avvicina alla sorgente”. “Meditare come Abramo non soltanto risveglia in te la pace e la luce, ma anche l’Amore per tutti gli uomini”. E Padre Serafino gli lesse quel famoso passo dal libro della Genesi. dove si parla dell’intercessione di Abramo. Abramo stava davanti a YHWH, “Colui che è – che era – che sarà” Gli si avvicinò e disse: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?…” Poco a poco Abramo dovette ridurre il numero dei giusti perché Sodoma non venisse distrutta. “Non si adiri il mio Signore se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci…” (Gen 18, 23).
Meditare come Abramo vuol dire intercedere per la vita degli uomini, non ignorare nulla della loro putredine e tuttavia “mai disperare della misericordia di Dio”. Questo genere di meditazione libera il cuore da ogni giudizio e da ogni condanna, sempre e ovunque; pur di fronte a infiniti orrori egli chiede sempre perdono e benedizione. Meditare come Abramo conduce ancora più lontano. Le parole facevano fatica a uscire dalla gola del Padre Serafino, come se questi avesse voluto risparmiare al giovane un’esperienza attraverso la quale lui stesso era stato costretto a passare e che ridestava nella sua memoria un sottile tremore: “Ci può condurre fino al Sacrificio…” egli citò il passo della Genesi in cui Abramo si mostra pronto a sacrificare il proprio figlio Isacco.
“Tutto appartiene a Dio, continuò in un mormorio Padre Serafino. Tutto e suo, viene da lui ed e per lui”; meditare come Abramo ti conduce alla totale spoliazione di te stesso e di ciò che hai di più caro… qual cosa a cui tieni particolarmente, con cui identifichi il tuo io”… Per Abramo si trattava del suo unico figlio; se tu sei capace di questo dono, di questo totale abbandono, di questa infinita fiducia in Colui che trascende ogni ragione e ogni buon senso, tutto ti sarà reso al centuplo: “Dio provvederà”.
Meditare come Abramo e avere nel cuore e nella coscienza “nient’ altro che Lui”. Quando salì in cima alla montagna Abramo pensava solo a suo figlio.
Quando ridiscese non pensava che a Dio. Passare attraverso la vetta del sacrificio e scoprire che niente appartiene all’”io”. Tutto appartiene a Dio.
È la morte dell’ego e la scoperta del “Sé”. Meditare come Abramo è aderire con la fede a Colui che trascende l’universo, è praticare l’ospitalità è intercedere per la salvezza di tutti gli uomini. È dimenticare se stessi è spezzare i legami, anche i più legittimi, per scoprire se stessi, il nostro prossimo e tutto l’universo abitato dalla presenza infinita di “Colui che, solo, È”.
Meditare come Gesù
Padre Serafino si mostrava sempre più discreto. Sentiva i progressi che il giovane faceva nella meditazione e nella preghiera. Parecchie volte lo aveva sorpreso, il viso bagnato di lacrime, a meditare come Abramo, intercedendo per tutti gli uomini, “Mio Dio, mia misericordia che cosa sarà dei peccatori…?” Il giovane un giorno venne a lui e gli chiese: “Padre, perchè non mi parlate mai di Gesù? Qual era la sua preghiera personale, la sua forma di meditazione? Nella liturgia, nei sermoni non si parla che di Lui. Nella preghiera del cuore, quale se ne parla nella Filocalia, occorre invocare il suo nome. Perchè non me ne dite nulla?”
Padre Serafino sembrò turbato. Come se il giovane gli domandasse qualcosa di indecente, come se fosse costretto a rivelargli il suo segreto. Più grande è la rivelazione che si è ricevuta, più grande dev’essere l’umiltà per trasmetterla. Indubbiamente egli non si sentiva abbastanza umile: “Questo, soltanto lo Spirito Santo puo insegnartelo. “Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Lc lO, 22). Devi diventare figlio per pregare come il Figlio e avere con Colui che Egli chiama suo e nostro Padre le stesse relazioni d’ intimità, e questa e opera dello Spirito Santo. Egli ti ricorderà tutto ciò che Gesù ha detto. Il Vangelo diventerà vivo in te e ti insegnerà a pregare nel modo giusto” Il giovane insiste “Ditemi ancora qualcosa”. Il vecchio gli sorrise “Ora, disse, farei meglio a latrare. Ma tu prenderesti ancora questo come un segno di santità.
È meglio che io ti dica le cose semplicemente. “Meditare come Gesù è ricapitolare tutte le forme di meditazione che ti ho insegnato fino ad ora. Gesù è l’uomo cosmico. Sapeva meditare come la montagna, come il papavero, come l’oceano, come la tortora. Sapeva anche meditare come Abramo. Il suo cuore senza limiti amava persino i suoi nemici, i suoi carnefici: “Padre, perdonali perche non sanno quello che fanno”. Praticava l’ospitalità verso malati, peccatori, paralizzati, prostitute… La notte si ritirava a pregare, nel segreto, e là mormorava come un bambino “Abbà” che vuol dire “papà”… Ti potrà sembrare irriverente chiamare “papa” il Dio trascendente, infinito, nnominabile! Ti potrà sembrare quasi puerile, eppure questa era la preghiera di Gesù, e in questa semplice parola “Abbà” era detto tutto. Il cielo e la terra diventavano terribilmente vicini. Dio e l’uomo formavano una cosa sola… bisogna forse aver chiamato nella notte “papa” per capire… Ma può darsi che, oggi, queste intime relazioni di un padre e di una madre con il loro figlio non dicano più niente. Forse e una cattiva immagine…
È per questo che preferirei non dirti nulla, non usare immagini e aspettare che lo Spirito Santo metta in te i sentimenti e la conoscenza che erano in Cristo Gesù e che questo “Abbà” non rimanga a fior di labbra ma venga dal profondo del cuore. Quel giorno comincerai a comprendere che cosa è la preghiera e la meditazione degli esicasti”.
Ed ora, va’ !
Il giovane rimase ancora alcuni mesi sul Monte Athos. La preghiera di Gesù lo trasportava negli abissi, talvolta al limite di una certa “follia”. “Non più io vivo, e Cristo che vive in me”, poteva dire con san Paolo. Delirio di umiltà, d’intercessione, di desiderio “che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla piena conoscenza della verità”. Diventava Amore, diventava fuoco. Il roveto ardente non era più, per lui, una metafora ma realtà: “Ardeva eppure non Si consumava”. Strani fenomeni di luce succedevano nel suo corpo. Certi dicevano di averlo visto camminare sull’acqua o di averlo sorpreso mentre stava seduto, immobile, a trenta chilometri da terra…Questa volta padre Serafino latrò: “Basta! Adesso, va!”, e gli intimò di lasciare l’Athos e di ritornare a casa; là avrebbe visto che cosa restava delle sue belle meditazioni esicastiche.
Il giovane partì. Ritornò in Francia.
Lo trovarono piuttosto smagrito e non videro niente di molto spirituale nella sua barba sporca e nella sua aria trasandata… Ma la vita della città non gli fece dimenticare l’insegnamento dello staretz.
Quando si sentiva troppo agitato per la tirannia del tempo, andava a sedersi come una montagna sulla terrazza di un caffe. Quando sentiva in se l’orgoglio, la vanità, si ricordava del papavero, “ogni fiore appassisce”, e nuovamente il suo cuore si volgeva verso la luce che non muore.
Quando la tristezza, la collera, il disgusto invadevano la sua anima, respirava profondamente, come un oceano, riprendeva fiato nel respiro di Dio, invocava il suo Nome e mormorava: “Kyrie eleison…”
Quando notava la sofferenza degli uomini, la loro cattiveria, e sentiva la propria impotenza a cambiare le cose, si ricordava della meditazione di Abramo. Quando era calunniato e di lui si diceva ogni sorta di malignità, era felice di meditare come Cristo… Esteriormente, era un uomo come gli altri. Non cercava di avere “l’aria di un santo”… Aveva perfino dimenticato di praticare il metodo d’orazione esicastica, semplicemente cercava di amare Dio, istante per istante, e di camminare alla sua Presenza…
Jean-Yves Lelouptratto da J-Y.L., Esicasmo: che cos’è,come lo si vive, Gribaudi, pp.9-25

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