mercoledì 24 marzo 2010

Proprietà del timo

Quest'anno l'inverno sembra non volersene andare e lasciar spazio ai primi caldi primaverili: neve e vento hanno invaso non molti giorni fa gran parte delle regioni italiane. E tra sbalzi di temperatura e correnti d'aria, non si è ancora al sicuro da influenze e raffreddamenti.

In questi giorni mi è capitato più volte di sentire mamme costrette nelle proprie abitazioni a causa della forte tosse dei loro bimbi. Purtroppo la tosse è un sintomo piuttosto comune in età pediatrica e si può presentare in vari modi e in momenti diversi della giornata.

Quindi vediamo come possiamo aiutare i nostri piccoli (ma anche il resto della famiglia) con semplici e sani accorgimenti.

Per prima cosa è necessario umidificare l'aria della casa, ma soprattutto della stanza del bambino (o dove è sua abitudine dormire) in modo da non rendere secca l'aria respirabile che potrebbe irritare ulteriormente le mucose respiratorie. Basterà sistemare sui caloriferi dei piccoli recipienti pieni d'acqua e, se il bambino ha già raggiunto l'età dei 2 anni, sarà possibile aggiungere alcune gocce di olio essenziale al timo, eucalipto e menta capaci di donare un tocco balsamico all'ambiente. Evitiamo però di utilizzare gli oli essenziali di notte e nelle camere da letto.

In aggiunta all'umidificazione dell'aria della casa, è utile far fare al piccolo un suffumigio servendosi di una bacinella di acqua calda e qualche goccia di olio essenziale di timo (Thymus vulgaris) e fargli respirare profondamente quei profumatissimi vapori. Mettere un asciugamano sopra la testa sarebbe ancora più utile, ma potrebbe risultare un'impresa piuttosto ardua per i bambini! È possibile rendere i fumi ancora più gradevoli aggiungendo dell'olio di lavanda o di limone.

Anche il massaggio può tornare utile: accarezzare il piccolo corpicino del nostro bimbo lo allevierà dai fastidiosi colpi di tosse e lo aiuterà a tranquillizzarsi ricordandosi che al suo fianco ci sono mamma e papà che si prendono cura di lui in modo affettuoso ed amorevole. Inoltre il semplice tocco delle mani dei genitori ha effetti benefici anche sul sistema nervoso centrale del bambino ed è un ottimo metodo per rafforzare il legame affettivo con i propri figli.

Il massaggio può essere fatto con prodotti balsamici che noi tutti possiamo facilmente creare in casa con le nostre mani, senza essere costretti a spendere un sacco di soldi nelle farmacie! È sufficiente un semplice olio di mandorle dolci (o ancor meglio dell'olio di jojoba, ma è più costoso) a cui si aggiungono un paio di gocce di olio essenziale di timo che, grazie alle sue proprietà antisettiche, toniche e antiparassitarie, è consigliato in tutte le malattie delle vie respiratorie in quanto è un forte battericida. Il massaggio andrà fatto sulla zona del petto e della schiena alta, nonché sulla zona della gola.

Per i più piccini (sotto l'anno di età) è sconsigliabile eccedere nell'utilizzo degli oli essenziali (anche se naturali) in quanto sono un puro concentrato di piante e risultano essere troppo invasivi ed irritanti. Invece di massaggiare il corpo del piccolo, limitiamoci ad accarezzargli le piante dei piedini, sempre con dell'olio di mandorle e una goccia di olio essenziale di timo.

Massaggiare i piedi potrebbe non avere alcun senso e nessun nesso logico con la tosse, ma non è così! La riflessologia plantare, infatti, ci insegna che tutti gli organi e tutti i sistemi del nostro organismo sono "riflessi" sulla pianta dei nostri piedi con una specifica posizione ricreando su questa zona del corpo piuttosto limitata una mappa esatta di tutto il corpo. Senza entrare nei particolari di questa affascinante pratica, possiamo coccolare i piccoli piedini portando l'attenzione alla zona compresa tra alluce e melluce (il secondo dito del piede) e su tutta la parte superiore della pianta del piede.

Un altro semplice modo per liberare i polmoni e le vie respiratorie è quello di mettere alcune gocce di olio essenziale di timo su un fazzoletto di stoffa e ... inalare a volontà!

Gli oli essenziali che si utilizzano devono assolutamente essere di ottima qualità e quindi naturali e preferibilmente da agricoltura biologica, senza aggiunta di conservanti, coloranti e sostanze sintetiche. Questi oli, essendo ricavati con procedimenti particolari direttamente dalla pianta, avranno un certo prezzo (ma comunque accessibile): diffidiamo quindi dai "falsi" oli (che sono per lo più sintetici e creati in laboratorio) che riempono gli scaffali di supermercati e grandi magazzini e che costano pochi euro.

Ricordiamoci che gli oli essenziali entrano nel nostro organismo (e in quello dei nostri piccoli) sia tramite la pelle che per inalazione... Respiriamo quindi prodotti sani e benefici per la nostra salute!

Riguardo l'olio essenziale di timo ricordo che esso non deve assolutamente essere utilizzato puro direttamente sulla pelle, ma sempre diluito con un olio vegetale. Non può inoltre essere utilizzato in caso di tendenze epilettiche, di iperfunzionalità tiroidea e in gravidanza.


Federica Scropetta

mercoledì 10 marzo 2010

A proposito di donne: la mano di Fatima

Chiamato “hamsa”, o “khamsa” questo amuleto a forma di palmo aperto è considerato una potente protezione contro le malvagità, il malocchio, la gelosia ed i cattivi pensieri in tutto il territorio del nord Africa e di parte del Medio Oriente.
La parola “Hamsa” (o khamsa) significa “cinque”, che nella religione musulmana ed ebraica riveste un valore sacro: cinque sono infatti i sacri libri della Torah, e ricorda anche la quinta lettera dell'alfabeto ebraico : “Heh”, uno dei nomi sacri di Dio; per i Sunniti rappresenta i cinque pilastri della fede, mentre gli Sciiti vi riconoscono l'autorità dei “cinque uomini con il turbante”, figure religiose inviate direttamente dal Profeta.
La definizione di “Mano di Fatima” è stata assunta per commemorare Fatima, la figlia del Profeta Maometto andata in sposa ad Ali, nipote del padre. A lei sono stati riconosciuti molti miracoli: si racconta infatti che quando si recava a pregare nel deserto, la sua fede era talmente forte e potente da riuscire a far piovere, facendo sbocciare nella sabbia del deserto una gran moltitudine di splendidi fiori.La leggenda racconta che una sera Fatima stava preparando la cena, quando vide rientrare il marito, di cui era perdutamente innamorata, con una concubina (la religione islamica permette la poligamia maschile, e l'uomo si può sposare fino a quattro volte). Profondamente amareggiata dall'arrivo di questa donna Fatima non si accorse di aver lasciato cadere il cucchiaio di legno con cui stava cuocendo il semolino, e continuò a mescolare la cena con la mano, senza sentire dolore. Il dolore che provava nel cuore era talmente forte da non farle sentire il bruciore alla mano.
Arrivò il marito, che la trovò in quello stato e quando le chiese “Fatima, cosa stai facendo ?”, lei si riscosse in quel momento, accorgendosi solo allora della bruciatura e del forte dolore alla mano.
Ali si prese cura di lei, ma poi le disse che avrebbe passato la notte con la nuova sposa.
Fatima accettò la volontà del marito, ma quando egli si recò nella camera con la concubina, Fatima li spiò da una fessura tra le assi di legno della parete della camera. Si dice che quando vide Ali baciare la nuova moglie, una lacrima uscì dagli occhi di Fatima, per andarsi ad appoggiare sulla spalla di Ali, facendogli capire l'amore che la moglie provava per lui, e convincendolo a rinunciare alla nuova concubina.
Da questa leggenda le giovani donne arabe ed islamiche traggono l'importante simbolgia che accompagna il pendente dedicato a Fatima: le donne che lo indossano, infatti riceveranno il dono della pazienza, che porterà loro gioia, fortuna e ricchezza.
Molte sono le culture in cui il pendente “Mano di Fatima” viene indossato o regalato come portafortuna, ma anche per ricordare a chi la indossa che la fede in Dio va espressa attraverso tutti e cinque i sensi; spesso le ricche decorazioni presenti sul pendente vengono completate con il disegno di un occhio centrale, per alcuni l'occhio di Dio che vigila sui fedeli, per altri un potente talismano che allontana il malocchio.
Si dice inoltre che la “Mano di Fatima”, per donare gioia, pace e prosperità, possa essere indossata sia con la punta delle dita rivolta verso il basso sia con la punta rivolta verso l'alto. In realtà la “Mano di Fatima” indossata con la punta verso l'alto è considerata un potentissimo talismano e significa che ci si sta proteggendo da influssi negativi, gelosie o malocchio.
Il pendente “Mano di Fatima” creato solo in Argento (il metallo del Profeta), è realizzato in due modi: il più popolare presenta la mano con tre dita aperte e due pollici simmetrici ai lati, mentre nell'altro la mano viene rappresentata con tutte e cinque le dita aperte. Leggenda vuole che, in ricordo della lacrima di Fatima che fece ravvedere il marito, le cinque dita ricordino, nella forma, quella lacrima sacra.

Il chiama-angeli per la mamma in attesa

Uno degli aspetti più importanti per assicurare un parto naturale è che il bimbo sia in posizione cefalica (con la nuca rivolta verso il basso) in modo che la testa del piccolo si incanali nel canale del parto.

Durante i nove mesi di gravidanza la piccola creatura può girarsi più e più volte all'interno del caldo ed accogliente utero materno e ovviamente più spazio avrà (inizio gravidanza) e più gli sarà possibile fare comode capriole.

Negli ultimi mesi infatti, lo spazio limitato gli rende difficoltosa la rotazione, anche se ciò può accadere per correggere la posizione e mettersi finalmente a testa in giù, o a volte, purtroppo, per mettersi podalico.

Un parto con bimbo podalico non è impossibile e ci sono tante testimonianze molto interessanti e rassicuranti a riguardo, ma in questi casi la maggior parte degli ospedali italiani (e non) danno per scontato un taglio cesareo in quanto ritenuto pericoloso e più complesso di un parto naturale. Ma questo è un altro argomento...

Fin dall'inizio della gravidanza è possibile aiutare il bambino ad orientarsi all'interno dell'utero materno e a suggerirgli la posizione corretta che deve assumere con semplici accorgimenti.

Un curioso ciondolo "riscoperto" ultimamente e che in tanti chiamano "Chiama Angeli" risulta essere molto efficace. Il suo vero nome è "Bola" e ha origini messicane.

Si tratta di un ciondolo in argento dalla forma sferica al cui interno è saldato un piccolo xilofono che con leggeri movimenti crea un particolare e delicato tintinnio. Indossato come una lunga collana al collo della donna in dolce attesa, ha particolari effetti anche sul nascituro.

Alla dodicesima settimana di vita intrauterina l'orecchio interno inizia a svilupparsi e già verso la ventesima settimana l'udito è ottimale e il piccolo inizia a sentire le voci, i suoni e i rumori intrauterini ed extrauterini. Ad ogni passo della futura mamma il piccolo sarà cullato dal suo comodo utero, dal caldo liquido amniotico in cui è immerso e...dal dolce trillo del ciondolo. Il bimbo tenderà istintivamente a seguire quel suono e se posizionato a testa in su potrebbe tentare di girarsi, incuriosito dallo xilofono.

Inoltre il tintinnio fa rilassare e tranquillizzare la piccola creatura, ma soprattutto lo abitua ai ritmi della madre e quindi del sonno/veglia: quando è giorno si sta svegli e si cammina (e il ciondolo suona), quando è notte si riposa e si sta fermi (e il suono non c'è più). Quindi, future mamme, ricordate di togliere il bola di notte e, futuri papà, ricordatevi di farglielo togliere per non passare notti insonni in futuro!

Attenzione: è di fondamentale importanza posizionare il ciondolo in maniera corretta per non rischiare di ottenere l'effetto contrario aiutando il piccolo a mettersi podalico. Il bola deve infatti essere indossato con un cordino molto lungo in modo che la sfera arrivi all'altezza del basso ventre in corrispondenza della testolina del piccolo (almeno 4 dita sotto l'ombelico). Tante volte mi è capitato di vedere mamme con il ciondolo posizionato troppo alto e lamentarsi del piccolo podalico...

Ci tengo a sottolineare un aspetto importante di questo articolo: il suddetto ciondolo è solo un semplice modo per aiutare il bambino a rimanere della posizione corretta o per aiutarlo a girarsi, ma questa non è una garanzia.

In caso di bimbi podalici esistono tantissimi metodi per guidarli verso il canale del parto in posizione corretta, anche a gravidanza avanzata. Ci sono tecniche naturali, erbe da applicare in particolari punti, movimenti e posture da assumere, trattamenti di particolari discipline,... Il mio consiglio è di cercare fin da subito di instaurare un rapporto speciale con il proprio cucciolo che, anche se nel pancione, riesce a percepire benissimo le parole e la presenza di mamma e papà: parliamogli come se fosse un adulto, incoraggiamolo a girarsi, facciamogli sentire il calore e l'amore delle mani sul basso ventre.

Sono semplici cose, ma che permettono di instaurare un solido rapporto di comunicazione tra figlio e genitori basato sul puro amore.

L'argomento resta comunque molto delicato e quando si è tentato davvero di tutto per far girare il piccolo, ma ogni tentativo risulta essere invano, è importante per i futuri genitori trovare la forza per accettare la situazione rispettando la decisione del proprio figlio. Questo non vuol dire rassegnarsi, ma solo mettersi in uno stato di accettazione.

Ricordiamoci comunque che, anche se lo spazio è davvero ridotto, il piccolo potrebbe girarsi anche all'ultimo istante prima di venire alla luce.

Federica Scropetta

Dalla parte del bambino

Diego nasce alla 38° settimana di gestazione da taglio cesareo elettivo, la mamma è una precesarizzata. Fino a quel momento Diego aveva fatto il suo dovere, mettendosi in posizione cefalica, ma senza fretta, perché non aveva avvertito alcun segnale che gli indicava di doversi impegnare. Nessun avvertimento biochimico o ormonale, nessun segnale meccanico, nessuna comunicazione tra lui e la placenta, nessun vero dialogo tra il suo cervello e quello della mamma. Lui non poteva sapere che quel cerchiolino sul calendario in cucina stava ad indicare che mercoledì mattina alle 8, in una moderna sala operatoria, il suo mondo sarebbe definitivamente cambiato. Quando la mano guantata lo estrae con attenzione, ma senza chiedere il permesso, il suo viso è una enorme unica smorfia; esce come da un sifone trascinandosi tutto il suo liquido (è proprio suo, l’ha prodotto lui). Come giustamente si usa dire: Diego viene alla luce; la luce della vita? No, la luce della scialitica (anzi due, di fabbricazione tedesca).

Con gesti rapidi e sicuri viene immediatamente separato dalla sua placenta; ‘la placenta è l’unico organo del corpo che si butta via’.

L’Apgar si dà al termine del primo minuto, ma Diego inizia a respirare al terzo secondo, e a otto secondi mostra già tutti i dieci punti. E continua a piangere; ma, ‘neonato che piange, anestesista che ride’. In effetti tutti ridono e si complimentano a vicenda; anche Diego riceve molti complimenti, ma lui non gradisce e continua a piangere. L’ostetrica che l’ha preso per portarlo sul lettino tenta di calmarlo asciugandolo e avvolgendolo con un telo tiepido. Respira già bene e quindi non viene aspirato; anche la luce del lettino viene spenta per non disturbarlo inutilmente, ma lui continua a piangere. E’ così arrabbiato da inarcarsi in opistotono, anche gli arti sono rigidi. Fortunatamente questo atteggiamento dura poco, altrimenti anche il respiro avrebbe cominciato a farsi difficoltoso.

Viene avvolto più stretto nel telino per dargli un confine e una sponda di appoggio, ma lui continua a piangere. L’anestesista ora non ride più ed è stupito da questa disperazione ‘perché fa così? cosa c’è di meno traumatico che nascere da cesareo senza neppure la fatica del travaglio?’. Queste parole mi colpiscono, anche se dal punto di vista del medico, o semplicemente di un adulto, sono logiche. E’ dal punto di vista di Diego che invece sono prive di senso.

Cerchiamo di capire perché.

Tecnicamente Diego nasce con un parto precipitoso; non è possibile concepire un modo per nascere più veloce di questo. Senza travaglio non gli è stata possibile alcuna preparazione e neppure alcuna partecipazione. Soltanto aspettando l’inizio spontaneo del travaglio avremmo potuto capire quando Diego era pronto per nascere. E’ anche per questo che i nati a termine da taglio cesareo senza travaglio, hanno un rischio di patologia respiratoria da difficoltoso adattamento circa sette volte maggiore dei nati da parto spontaneo.

La mancata partecipazione fisica ed emotiva al travaglio e al parto, impediscono l’attivazione di quei raffinati movimenti fetali di locomozione e propulsione che Milani Comparetti identificava come repertorio innato del feto, in grado di dare inizio agli automatismi primari (cioè quelle competenze geneticamente programmate che attivate dall’esperienza e dall’ambiente danno origine a importanti funzioni adattive).

Cerchiamo di immaginare come Diego ha vissuto fino a pochi secondi dalla nascita.

Avvolto dal liquido, in assenza di gravità, massaggiato continuamente dalle pareti morbide, lisce e pulsanti dell’utero, accompagnato da suoni continui (interni ed esterni al corpo materno), in perenne e ritmico dondolio. Diego come tutti i feti per nove mesi è un bambino ‘viziato’; in utero infatti il bisogno viene soddisfatto prima ancora di essere percepito, in quello stato è assente la percezione di mancanza. La fame e la sete vengono annullate da una placenta prodiga, simile alla manna del racconto biblico, un nutrimento pronto e non conservabile, in una posologia definibile quanto basta.

Se approfondiamo il nostro sforzo di immaginare la vita fetale di Diego, riusciamo a intuire che per lui (ancora privo di individualità consapevole) mondo interno e mondo esterno coincidono; lui è anche la sua placenta, ma anche il suo utero, e anche la sua mamma. Per alcuni mesi dopo il parto Diego non avrà una mamma, perché la mamma continuerà ancora per un po’ ad essere percepita come una parte di sé. In utero ha vissuto buona parte del suo tempo in una sorta di dormiveglia, in sonno attivo (e questo ha favorito il suo sviluppo cerebrale). In realtà Diego non è in grado di distinguere tra la veglia e il sonno, tra la realtà e il sogno; e poiché quando sogna non sa di sognare, vivrà il suo sogno con la stessa intensità della veglia attiva.

Diego fino al momento della nascita ha vissuto soltanto il tempo uterino, che è un non-tempo, con caratteristiche di costanza e prevedibilità, dove il ritmo è dato dalla periodicità biologica dell’organismo materno e fetale. E’ proprio questa coerenza dell’esistenza fetale a caratterizzare il mondo uterino, dove la coscienza emozionale è rappresentata da una percezione sensoriale globale, nella quale la dimensione cognitiva ed affettiva coincidono.

Come ogni feto Diego è un soggetto sinestesico, incapace di separare e catalogare con un pensiero razionale e simbolico la natura delle proprie percezioni ed emozioni. Lui è il suo corpo, ma questo corpo comprende anche l’ambiente nel quale è inserito, e il suo ambiente arriva fin dove la sua capacità percettiva è capace di giungere.

Quando Diego nasce è quindi un bambino ‘viziato’ che non può fare a meno dell’esperienza fatta in utero, un’esperienza che potremmo definire di ‘relazione-senza relazione’ (dove appunto 1+1 fa esattamente 1); nel momento in cui nasce deve iniziare a sperimentare una nuova forma di esistenza (e a questo punto nella logica della nascita 1-1 farà 2). Adesso occorre costruire una relazione vera tra due o più individui, ma a Diego occorreranno mesi per capire o intuire questa difficile verità.

Ritorniamo ancora a Milani Comparetti che oltre vent’anni fa, con profetica lucidità, definiva la nascita ‘un evento che agisce come organizzatore di nuovi e diversificati fattori biologici e relazionali’, e sottolineava la ‘continuità del processo evolutivo ontogenetico’ nel quale ogni nascita è inserita.

Il dialogo biologico e psicologico, che caratterizza la relazione madre-bambino iniziata in utero, con la nascita non si interrompe, ma si riconverte e si riorganizza; madre e bambino iniziano un rapporto nel quale ognuno di loro è contemporaneamente soggetto e oggetto.
La voce della mamma rappresenta il primo forte collegamento con la vita prenatale; sappiamo che per buona parte della vita fetale l’udito appare ben sviluppato e attivo, permettendo quella che viene definita memoria intrinseca o evocativa. Il timbro, il tono e la musicalità della voce materna può essere considerato la prima forma di collegamento tra l’endo e l’esogestazione. Ogni altro suono sarà nuovo, sconosciuto, disturbante, incapace di evocare alcunché.

Studi di neurofisiologia hanno mostrato la diversa attivazione cerebrale prodotta nel neonato dalla voce materna – il motherese - rispetto alla comune voce dell’adulto, dimostrando che il neonato, fin dal settimo mese di gestazione, è capace di processare la qualità dei suoni discriminando le componenti linguistiche.

Quando il neonato si rilassa, ritrova un nuovo equilibrio sensoriale e una nuova dimensione cinestesica, arrivando ad aprire gli occhi. Inizialmente ‘vedrà senza guardare’ non potendo vedere nulla di noto (neppure il volto materno); occorrerà un po’ di tempo per mettere in collegamento il volto della madre con la sua voce, il suo odore, il suo tocco, il suo seno, il suo latte, ….

Il contatto col seno riporta il neonato alla prevedibilità e alla coerenza uterina. Per lui la realtà è ancora sinestesica: quando succhia il seno, con la bocca beve il latte e con lo sguardo beve il viso della mamma; intanto annusa, tocca ed è toccato. Durante l’allattamento i suoi sensi sono particolarmente attivi e sinergici; così nel momento della poppata sono tantissimi i bisogni che vengono contemporaneamente soddisfatti: fame, sete, calore, contenimento, contatto, visione, …e per un po’ si realizza una nuova rassicurante omeostasi.

Durante la suzione del seno il neonato riesce ad addormentarsi direttamente in sonno REM, cominciando immediatamente a sognare; ma a sognare cosa? probabilmente sogna di poppare oppure di essere tornato nella pancia ‘dove ogni bisogno è soddisfatto prima di poter essere percepito’.

Il passaggio da feto a neonato è un processo biologico e psicologio che coinvolge principalmente il SNC (gli altri organi e apparati sono coinvolti solo secondariamente). Nelle ultime settimane di gravidanza il tronco cerebrale ha terminato la sua maturazione e la corteccia ha iniziato ad integrarsi con le strutture sottocorticali permettendo l’elaborazione delle esperienze sensoriali. Attraverso la plasticità cerebrale, le stimolazioni e le interazioni con l’ambiente producono condizionamenti e modifiche strutturali sulla maturazione cerebrale, sia nell’ultimo periodo fetale che nei primi mesi di vita.

Il percorso da feto a neonato potrebbe essere considerato una forma di ‘ricerca di senso’, inizialmente di coerenza ed equilibrio e subito dopo di maggiore organizzazione.

Potremmo anche paragonare il neonato ad un adolescente, entrambi vivono infatti una faticosa e stimolante esperienza di transizione tra un mondo definitivamente perduto e un altro completamente nuovo da costruire.

Ma come aiutare questo ‘adolescente’ privo di coscienza e pensiero simbolico, innamorato folle della propria madre? Come aiutare questo individuo incapace di riconosce la realtà, ma che nella realtà si trova a vivere completamente esposto, privo di filtri e difese?

La nostra specie vive il primo semestre di vita mantenendo funzioni di natura fetali, e per questo parliamo di esogestazione. Per Winnicott il neonato al momento della nascita non è ancora pronto per nascere e Selma Fraiberg ha osservato che ‘gli avvenimenti della sua vita sono senza connessione’.

Se vogliamo rendere più facile al neonato la sua disperata ricerca di equilibrio, dobbiamo mettere ordine e coerenza nella ‘confusione’ delle sue percezioni, ricordando, come osservava J. Korzack, che egli pensa per ‘emozioni e sentimento’.

Diego ha mostrato in modo eclatante tutto il suo bisogno di adattamento, ma anche la sua mamma e il suo papà non sono esenti da bisogni speciali ed emotivamente importanti.

Il loro primo bisogno nasce dalla necessità di vedere, di ascoltare e di toccare il bambino, di sentirlo vivo (a noi medici invece interessa la sua vitalità,… non è la stessa cosa). Ma subito dopo compare il bisogno di essere visti da lui, e poi di essere toccati, fino ad arrivare ad essere ‘mangiati’ da lui (anche se inizialmente è solo un piccolo assaggio).

In un attimo compare il bambino reale, quello vero, che sostituisce quello immaginato; ma il neonato immaginato è anche un po’ temuto, e quindi occorre che una persona di fiducia dichiari esplicitamente: è sano e sta bene (anche se la cosa fosse già di per se evidente).

Il tenere in braccio rappresenta il termine della fatica della gravidanza e lo scopo del dolore del parto, ma è anche l’inizio vero e proprio di un progetto esistenziale che può essere guardato e toccato. In questo momento si colma, in maniera quasi automatica e inconscia, quel senso di vuoto di una pancia disabitata, dove improvvisamente non avvengono più movimenti e azioni.

Questo processo può essere rapidissimo, oppure può durare a lungo se il neonato viene portato via, se il bambino invisibile della pancia non si mantiene in continuità col bambino tenuto in braccio; il bambino che ritorna lavato e vestito, può essere percepito come un altro bambino.

Ha scritto una mamma: il risveglio dall’anestesia del cesareo è stato strano, non c’era più la pancia e non c’era più mia figlia (…) Era tutto talmente doloroso, un vero incubo, era come se non avessi partorito, mi comportavo come se mio figlio non fosse mai nato, come se non fossi mai stata incinta, altrimenti non avrei retto quel distacco innaturale (…)

E’ molto difficile per il personale ospedaliero aiutare un neonato disorientato, lo dimostra la facilità con la quale viene accettato il suo pianto. Il pianto non è una semplice forma espressiva (altrimenti i neonati canterebbero!) e neppure una ginnastica respiratoria (sic), il pianto serve per sperimentare la consolazione. Quando noi restiamo senza reagire a urla e pianti insistenti siamo come giornalisti inviati di guerra che al fronte, in poco tempo, assumono atteggiamenti distaccati e cinici; il nostro è un normale atteggiamento di difesa, ma il rischio è di creare un ambiente anaffettivo, dove anche i genitori per condizionamento e imitazione possono vedere prosciugarsi o bloccarsi la loro sensibilità e affettività inconscie.

Come operatori sanitari possiamo invece aiutare i genitori a essere emotivamente disponibili, favorendo la loro predisposizione all’accudimento, incoraggiando il fare, rassicurando e rispondendo ai dubbi e se necessario prevenendo i pregiudizi inespressi: ‘signora, forse il bambino vuole essere preso in braccio e coccolato, provi a prenderlo con sé, adesso che è ancora piccolo non corre nessun rischio di viziarlo’.

Dobbiamo anche evitare di confondere la puericultura con il maternage: la puericultura riguarda le prassi e le modalità di comportamento degli operatori, mentre il maternage comprende l’insieme delle azioni e degli atteggiamenti che permettono alla madre di prendersi cura del bambino. La puericultura può essere standardizzata e normata da protocolli, mentre il maternage è sempre e solo personale, unico, dinamico e creativo.

I due ambiti possono contaminarsi positivamente: gli operatori possono personalizzare il loro agire e migliorare la loro sensibilità, i genitori possono acquisire un saper fare facilitato e più fiducioso. Occorre però evitare incoerenza e confusione tra i ruoli: la mamma che diventa una brava e precisa infermiera del figlio, l’operatore che sostituisce la madre in mansioni che esprimono un’importante valenza relazionale, come ad esempio l’alimentazione o il tenere in braccio (scriveva con un po’ di perfidia Winnicott: non lasciate che una persona prenda in braccio il vostro bambino, se capite che ciò non ha alcun significato per lei).

Come operatori dobbiamo puntare ad affinare sensibilità e attenzione nel cogliere le sfumature tra la relazione genitori-figlio, ‘pulendo’ il nostro linguaggio, favorendo intimità e rassicurazione; dobbiamo crescere nella consapevolezza che qualunque nostra procedura o azione non potrà mai essere neutra e, se non necessaria, diventerà immediatamente un ostacolo ai processi di adattamento e di bonding.

Usando per un attimo la prospettiva del neonato, proviamo a chiederci: alla nascita il neonato si aspetta di essere messo in una culla o di essere preso in braccio? Tenere in incubatrice per alcune ore dopo il parto un neonato che non ne ha bisogno, significa sostituire il dialogo uterino che si è improvvisamente interrotto, con un ambiente neutro e anaffettivo, che il neonato non è in grado di comprendere e di gestire; l’incubatrice è un oggetto col quale non è possibile interagire e che impedisce ad un neonato reattivo di organizzare una relazione primaria, minando così la sua ricerca di equilibrio col nuovo ambiente.

Sono ormai numerose le evidenze che mostrano la superiorità del contatto pelle a pelle rispetto all’incubatrice per stabilizzare la termoregolazione nell’immediato postpartum. Come già evidenziato per l’allattamento, anche il contatto madre-bambino subito dopo il parto assume molteplici valenze, coinvolgendo l’insieme delle componenti psicofisiche del neonato e producendo effetti di gran lunga superiori alla pratica tout court.

Siamo tutti consapevoli che il primo periodo dopo la nascita rappresenta un momento privilegiato per la costruzione dei processi di attaccamento tra i genitori e il bambino. La teoria di Bowlby è stata definita una teoria ‘spaziale’, nel senso che necessita di contatto diretto e vicinanza costanti, a mio avviso è anche una teoria ‘temporale’ che richiede tempi e modi privilegiati, il cui riferimento sono il ritmo e la periodicità uterine. In questa fase sarebbe quindi particolarmente utile posticipare gli interventi non strettamente o immediatamente necessari.

Occorre che riscopriamo e affiniamo un saper fare che promuova la normalità (Milani Comparetti parlava di semeiotica positiva) affinché la fisiologia possa rimanere tale e la cultura del nascere non venga contaminata da mansioni e procedure che non le appartengono.

Salvaguardare la ‘normalità’ di un neonato significa non aspirarlo se sputa e tossisce, significa interrompere il bagnetto se questo lo fa piangere, vuol dire attivarsi per portarlo rapidamente ad uno stato di tranquillità (Apgar 12?), posticipando la profilassi antiemorragica e oftalmica almeno di una paio d’ore dopo la nascita.

Anche sul neonato è possibile fare azione di empowerment, al fine di canalizzare e finalizzare le risorse e le energie di cui la natura lo ha fornito.

Siamo stati capaci di portare la ‘mortalità perinatale’ a percentuali bassissime, ma adesso a quali percentuali pensiamo di riuscire a portare la ’felicità perinatale’?

Come operatori possiamo chiedere a noi stessi di farci educare dalle nascite e dai neonati che incontriamo ogni giorno; ma un cammino educativo presuppone la disponibilità ad un costante cambiamento, sia individuale che di gruppo.

Ai genitori invece spetta il compito di attivare sentimenti forti ed empatici, come scrive Winnicott, per ‘presentare al bambino il mondo in un modo che abbia senso per lui’. Inizialmente soltanto la mamma (l’ambiente uterino da poco abbandonato) è in grado di fare da filtro col ‘mondo esterno’ minimizzando stimoli ed esperienze per il neonato incomprensibili e poco tollerabili, facilitando invece i necessari adattamenti per riconquistare l’equilibrio perduto.

In un certo senso un neonato separato dalla madre è un neonato ‘malformato’, perché privo di qualcosa di essenziale; egli può essere considerato un sistema omeostatico aperto, regolato dai processi di attaccamento e di interazione con la mamma. La regolazione che la madre esercita su di lui è definitiva e potrà riattivarsi anche nella vita adulta ogni volta che si realizzeranno condizioni e bisogni primari.

Attraverso l’allattamento la madre è in grado di tramutarsi da nutrimento biologico a nutrimento emotivo, trasformandosi in esperienza totalizzante. Così come dalla placenta per nove mesi sono passati i nutrienti per vivere e per crescere, dopo la nascita è il seno a fornire sostanze vitali che, come il sangue placentare, hanno origine direttamente dal corpo materno.

Già Ludovico Dolce nel 1547 definiva il latte di donna ‘sangue bianco’ e spiegava: ‘provide la natura alla nudritura de fanciulli, convertendo con meraviglioso artificio il sangue in latte, affine che quello aspetto non spaventasse’. Effettivamente il latte della mamma mantiene il neonato in stretta dipendenza biologica, permettendogli di continuare a cibarsi di lei. La separazione dal corpo materno è resa lenta e progressiva, limitando così il ‘trauma’ di una nascita inevitabilmente sempre troppo veloce.

Nel 1794 nel suo Discorso sopra l’allattamento de’ bambini Antonio Fantini osservava che ‘porgendo il seno al figlio la madre sente una porzione della sua esistenza passare in quella di lui’, e questo intimo senso di comunicazione d’esistenza è così forte e così coinvolgente ‘che essa di tutto si scorda in un momento, e da tutti i legami più cari si stacca; ella si chiude in casa sua, né sa più vivere che per suo figlio, che le tien luogo di tutti’; dopo oltre due secoli è arrivata la nostra scienza moderna a farci scoprire bonding e reverie materna.

Anche le attuali discussioni sul rooming-in e l’attaccamento precoce al seno sono state oggetto di riflessione già molti decenni orsono (almeno fin dagli anni ’40) e un pediatra milanese poco noto, Ferdinando Cislaghi, nel 1956 aveva il coraggio di scrivere: la nursery è comoda per molti, meno che al neonato. A quando una seria e onesta discussione sulla inutilità e sul danno iatrogeno prodotto per decenni dai nidi delle nostre maternità ?

Per terminare la storia della nascita di Diego, con la quale abbiamo iniziato questa riflessione, dobbiamo raccontare che quel suo pianto insistente e inconsolabile si è interrotto per pochi minuti soltanto quando è stato portato vicino alla mamma (ancora sul lettino operatorio) e ha potuto ascoltare la sua voce.

Mentre per noi operatori il mercoledì mattina in cui Diego è nato rappresenta un comune e feriale giorno lavorativo, per lui quello è stato il giorno più importante della sua vita; per sperimentare ancora un cambiamento esistenziale tanto impegnativo e significativo dovrà aspettare l’ultimo secondo della sua vita.

Alessandro Volta, pediatra

lunedì 8 marzo 2010

Auguri un corno

Ho un diavolo per capello.
(Succede anche a chi scrive blog sugli angeli.)
Incazzata come una biscia. Non solo per la mia vita privata distrutta, né per l'ennesimo sintomo bizzarro dovuto all'inquinamento sempre più diffuso, e ben celato all'opinione pubblica, della zona in cui sono costretta a vivere.
Detesto l'8 marzo, ecco il motivo. Lo detesto come e forse più del Natale trasformato in fiera del commercio: perché stavolta non è solo Dio a essere preso in giro, cosa che può non interessare chi non crede, ma siamo tutti noi, che ogni benedetto 8 marzo facciamo o riceviamo una fiumana di auguri che in realtà sono solo insulti.
Insulti verso quelle povere criste di operaie che andarono a fuoco centodue anni fa per aver osato protestare contro il loro sfruttamento e che non sarebbero morte se solo qualcuno, a partire dalle loro stesse famiglie su su fino al governo, le avesse aiutate a restare a casa anziché spedirle in fabbrica.
Altri insulti verso tutte noi che fin da piccole siamo state obbligate a ripetere come tante pappagalle che per essere felice devi essere trattata come i maschi, devi comandare, devi fare carriera in giacca e pantaloni e stare al lavoro tutto il santo giorno senza neanche il tempo di farti una maglia o prepararti un té, devi fare pochi figli e possibilmente nessuno perché costano e ingombrano, devi fare la zitella per essere indipendente, eccetera ... e per un bel po' di tempo ci abbiamo pure creduto. Io stessa, che scrivo, ho collaborato con il St.Catherine College di Londra, e solo l'amore mi ha aperto gli occhi, anche se non sono stata capace di dimostrarlo e me ne pento ogni volta che respiro fino a sentire la testa che scoppia. Considero un segno della Provvidenza che l'indirizzo mail che usavo allora sia andato bruciato per un phishing quando ho cambiato vita, rendendomi così impossibile da rintracciare.
Un'altra sfilza di insulti contro i nostri uomini, che siano papà, fratelli, mariti, amici o vicini di casa, dipinti a seconda dei casi come sfruttatori violenti o come minorati mentali con un cervello incapace di pensare due cose nello stesso momento: ogni volta che sento dire certe fesserie mi vengono in mente, chissà perché, Leonardo da Vinci e Gandhi...
Infine, tanto per cambiare, insulti e bestemmie contro Dio trattato come uno stupido o un poco di buono (pure Lui!) per avere osato crearci diversi, e per averci "offese" in maniera gravissima assegnando ad Eva la sfida di dare alla luce i suoi tanti figli anziché mandare anche lei a zappare e sollevare pesi sudando a più non posso.
Ecco, chi vuole proprio festeggiare l'8 marzo usi come regalo un bel serpentone come quello che fu la causa di tutto il putiferio: e lasciate sulla pianta il ramo di mimosa, simpatica e delicata piantina che non ha mai fatto male a nessuno ed è stata trasformata, suo malgrado, nel simbolo di una colossale presa in giro

lunedì 22 febbraio 2010

Allattamento e comportamento

Diremmo mai ad una mamma di smettere di carezzare, baciare, consolare suo figlio arrivati ad una certa età? "Ora tuo figlio ha due anni, smetti di consolarlo se pensi che ne abbia bisogno, è grande può bastare, sennò lo vizi.."

Allattare è un gesto d'amore e come tale non ha per natura limiti di tempo, l'amore non è a tempo! Gli ormoni coinvolti nel processo di lattazione materno sono gli stessi responsabili del concepimento e del parto, poiché l'allattamento è parte della vita sessuale di una donna.

La madre che sceglie di allattare a lungo il proprio bambino lo deve fare in un mondo che vede il seno soltanto come oggetto di attrazione sessuale senza considerarne la funzione fisiologica primaria.

Come non ci sogneremmo mai di entrare nell'intimità di un atto di amore che porta al concepimento, così dovrebbe essere quando un mamma nutre il suo bambino al seno. Ogni relazione d'amore ha le sue regole, la propria intimità, e nessuno può interferire in quella coppia, che oltre al nutrimento si sta scambiando un codice affettivo e relazionale che resterà nella loro memoria per sempre.

Invece, è prassi che una mamma che allatta il suo bambino diventi bersaglio di facili commenti da parte di chi assiste alla poppata. Commenti che si inaspriscono con l'aumentare dell'età del piccolo allattato, soprattutto in società come quella italiana, dove la cultura suggerisce modelli genitoriali a basso contatto.

Ormai sono numerosissimi gli studi che riguardano l'allattamento al seno nelle varie culture e i risultati non sono proprio così scontati per realtà come la nostra. Spesso le mamme si lasciano condizionare da chi hanno intorno come amiche e parenti, e da ciò che sentono dire o leggono su libri e giornali dedicati a loro, poiché ancora non esiste nel nostro Paese una cultura che sostiene l'allattamento al seno, né esistono modelli a cui fare riferimento. Le madri che allattano a lungo il più delle volte devono nascondersi, o mentire a chi hanno d'intorno.

Mary Ainsworth (1), famosissima psicologa, grazie ad alcune ricerche da lei compiute in Africa, già nel 1972 ipotizzava che l'età di svezzamento dei bambini dovesse essere intorno ai due/tre anni e che le modalità di allattamento al seno a richiesta, anche di notte, dormendo vicino al bambino e allattandolo per farlo addormentare, contribuirebbero a rendere il bambino più sicuro di sé e aumenterebbero la sua fiducia nel fatto che la madre comprenda i suoi segnali ed i suoi bisogni. Ciò costituirebbe una sorta di iniezione di fiducia e di sicurezza a cui il bambino farebbe riferimento per tutta la vita nei momenti di difficoltà.

Katherine Dettwailer (2), antropologa americana, comparando l'allattamento dei primati e analizzando la letteratura sull'età di svezzamento nelle varie culture, fa notare come esistano usanze molto diverse fra i vari popoli della Terra, sull'età ideale in cui si dovrebbero svezzare i bambini; in base ai suoi studi questa autrice afferma che se lo svezzamento avvenisse senza farsi condizionare dalle regole della società di appartenenza e fosse rispettato il processo biologico scelto dalla natura da migliaia di anni attraverso la selezione naturale, questo avverrebbe in un'età compresa fra i due anni e mezzo e i sette.

È chiaro che nelle società civilizzate la mancanza di allattamento è compensata dalla diffusione dell'igiene e dalle cure mediche, ma non è ancora sufficientemente valorizzato che oltre a queste esigenze il bambino, attraverso il contatto col seno di sua madre soddisfa anche il proprio bisogno di sicurezza, di affetto e di rassicurazione.

Maria Ersilia Armeni (3), pediatra italiana e consulente IBCLC di allattamento, afferma che: "La psicologia italiana è uno dei pilastri della legittimazione a sospendere l'allattamento protratto oltre i primi mesi poichè non è al corrente del profondo radicamento dal punto di vista ormonale e fisiologico dell'allattamento nella donna e nel bambino. Questo rappresenta una copertura che la nostra società adotta per rivestire di legittimità comportamenti e pratiche che non rispondono affatto alle esigenze biologiche dei nostri bambini".

Nella nostra società gli psicologi pensano addirittura che allattare un bambino oltre il primo anno di vita, possa provocare un danno psicologico, una limitazione all'acquisizione dell'autonomia del bambino, ma non esistono dati scientifici che lo dimostrino, né si spiegherebbe come un comportamento così pericoloso per l'individuo sarebbe stato selezionato nell'adattamento della specie fino ad arrivare ai giorni nostri.

Alcuni psicologi e pediatri colpevolizzano addirittura le madri che non svezzano il bambino dal seno entro il primo anno, affermando che queste abbiano difficoltà proprie nello staccarsi dal bambino e di fatto, contribuiscono a generare in loro sentimenti di sfiducia in sé e di confusione circa l'ascolto dei propri istinti di accudimento dei bambini e non le aiutano di certo a prendere decisioni consapevoli e autonome.

Ciò non significa che una mamma debba allattare per forza e a lungo, ma soltanto che se la mamma ha questa intenzione va rispettata e sostenuta. Questo è un aspetto nodale che vorrei mettere in risalto: alcuni psicologi vorrebbero sostenere le mamme ma di fatto, ne mettono a rischio l'autostima e l'autonomia decisionale, per pura disinformazione. Si pongono in maniera autoritaria e direttiva rendendole dipendenti, anzichè promuovere in loro l'attivazione delle risorse e delle proprie competenze, rispettandone le scelte.

Si rifletta anche sul termine "svezzamento" che letteralmente significa "togliere il vezzo", cioè il vizio. Passa il messaggio che allattare vizia il bambino. È il punto di partenza in base al quale si crea un immaginario collettivo non corretto, in quanto gli studi dimostrano che le mamme che allattano a lungo sono quelle dotate, per caratteristiche personali di un maggior senso di autoefficacia.

Anche l'espressione "allattamento prolungato" è discutibile: prolungato rispetto a cosa? Se neanche l'OMS dà un limite oltre il quale si deve smettere di allattare, perché lo devono dare gli psicologi o tutti gli pseudopediatri che circondano una mamma che allatta?

Carlos Gonzales (4), pediatra spagnolo, padre di tre figli e fondatore dell'associazione catalana per l'allattamento materno afferma che non esiste nessun limite all'allattamento materno, che non esiste alcune motivazione, medica, psicologica o nutrizionale per svezzare obbligatoriamente ad una certa età. Che le donne sono libere di decidere quanto allattare senza farsi condizionare dalle opinioni di esperti o presunti tali.

Michele Grandolfo, dirigente di ricerca dell'Istituto Superiore di Sanità, afferma che allattare è una questione di espressione di competenze. Ci fa notare che nel campo della promozione della salute l'obiettivo fondamentale dovrebbe essere quello di informare le donne e le loro famiglie per aiutarle a prendere decisioni autonome e consapevoli come espressione della propria competenza.

Soltanto così si avrà il vero empowerment: la donna avrà così più fiducia in sé e nella propria capacità di far fronte ai problemi risolvendoli grazie ad una maggiore capacità di ricerca della salute.

Perciò il vero potere della mamma dovrebbe essere rappresentato dall'autonomia e non dalla dipendenza da esperti che tendono a dominare e ad indirizzare scelte e comportamenti. L'espressione libera e autonoma delle proprie competenze che prima di diventare madri, non ci si sarebbe neanche immaginati di avere, dà forza alle mamme ed è associata ad una maggiore durata dell'allattamento.

Gli studi condotti da questo autore provano che non è una questione di stabilire quanto allattare, o se esiste un'età prestabilita per staccare il bambino dal seno materno, quanto invece, di mettere la mamma nelle condizioni di sentirsi forte, informata e autonoma nel compiere la propria scelte circa come, quando e soprattutto quanto allattare.

Esistono inoltre ricerche che mettono in luce che ciò che influisce maggiormente sulla decisione delle madri circa la durata dell'allattamento: sono le opinioni delle persone che circondano la mamma che allatta. Più a lungo la mamma allatta e meno supporto trova intorno a sé.

Risulta evidente quindi, che il problema è esclusivamente culturale, una cultura non del sapere, ma dell'ignoranza nel vero senso della parola, perché di fatto, l'allattamento non è materia di studio nei programmi universitari delle facoltà di Psicologia italiane. Eppure gli psicologi esprimono a gran voce pareri sfavorevoli all'allattamento oltre i primi mesi di vita, ignorandone i meccanismi psicobiologici.

Braibanti (5) affermava stupendamente che "allattare a lungo fa bene sia alla mamma che al bambino e che dal punto di vista materno, oltre ai vari effetti positivi sulla salute della donna, l'allattamento favorisce più saldi legami di attaccamento nei confronti del bambino e una maggiore competenza nell'interazione precoce. Questo accresce la fiducia della madre verso il bambino e verso se stessa; quindi tiene lontani atteggiamenti iperprotettivi e di simbiosi prolungata che nascono dalla mancanza di sicurezza sia verso se stessa che verso la relazione col proprio bambino.

La separazione in età precoce e gli atteggiamenti di disconferma della competenza femminile nel ruolo madre-nutrice rafforzano, invece, i sentimenti di insicurezza e di crisi. Quindi l'allattamento protratto non può essere dannoso né per la madre né per il bambino, né da un punto di vista psicologico, né fisiologico. Non c'è evidenza alcuna che l'allattamento protratto sia sintomo di difficoltà nella relazione normale tra madre e bambino".

Alexander Lowen (6), psicologo, padre della bioenergetica, afferma che "Il neonato ha bisogno del contatto fisico con sua madre così come ha bisogno del cibo e dell'aria. L'intimità necessaria si raggiunge soprattutto attraverso l'allattamento al seno. Soltanto il bambino sa di quanto contatto ha bisogno e per quanto tempo, alcuni bambini ne avranno bisogno più di altri.

Il contatto del bambino col sistema energetico della madre eccita l'energia del suo sistema e lo fa avvicinare al petto di sua madre. Se il bambino viene allattato circa tre anni, quello che a mio avviso è il tempo richiesto per soddisfare i suoi bisogni fondamentali, lo svezzamento non sarà traumatico e molti disturbi mentali potrebbero essere spiegati".

Questo autore pone a mio avviso una questione fondamentale: quella del bisogno primario, oggettivo ed universale di tutti i bambini, di contatto.

Vorrei citare infine, la pediatra Elena Balsamo (7) che riflette sulla questione della durata dell'allattamento secondo l'approccio dell'etnopediatria, branca della pediatria che compara le modalità di accudimento dei bambini nelle varie culture tradizionali della Terra.

A mio parere, soltanto così si può avere un quadro reale di ciò che è adattivo per l'essere umano e di quali sono i bisogni reali e geneticamente predeterminati di mamme e bambini ovunque essi vivano, non ha senso riferirsi ad un unico parametro culturale, poiché in sé troppo riduttivo e limitante circa le risorse da attivare quando ci si relaziona con un bimbo.

Ebbene, secondo questo approccio si è rilevato che nella maggior parte delle culture tradizionali del mondo le donne allattano con una durata media di circa due anni. Ciò che ha determinato il grande cambiamento in fatto di alimentazione infantile lo dobbiamo al processo di industrializzazione e lo svezzamento precoce è un'invenzione occidentale e post-industriale.

L'autrice inoltre afferma che permettere ad ogni bambino di lasciare il seno della mamma nel momento in cui è pronto, così come scegliere la frequenza e la durata dei pasti è un grosso aiuto allo sviluppo dell'autonomia e della capacità di operare scelte consapevoli in futuro. Nelle culture dove ciò avviene, i bambini sono più sicuri e meno aggressivi da adulti.

Eppure molti pensano che una mamma che permette ciò sia schiava del bambino e che non si sappia imporre, quando magari per lei sarebbe un piacere se solo non si sentisse osservata e giudicata.

Forse i bambini imparano così anche la differenza fra gli oggetti e le persone: la mamma che abbia voglia di offrire il seno in carne ed ossa anche al momento dell'addormentamento, fatta di calore, disponibilità, sguardi e scambi comunicativi da cui imparare a relazionarsi come esempio per i rapporti del futuro, è certamente altro rispetto ad un oggetto da portarsi a nanna.

Eppure questa visione suggerisce ai più, sempre per condizionamenti culturali, a mio parere, che il bambino venga viziato e non abbia regole, che sia maleducato. L'indagine antropologica ci dice esattamente il contrario e penso che ci vorranno ancora molti studi e molti anni perchè queste informazioni raggiungano tutti; non tanto per convincere su ciò che sia meglio fare e per dare indicazioni di comportamenti ai genitori, ma con il solo obiettivo di dare spunti di riflessione per poi poter mettere le famiglie nella migliore condizioni di compiere scelte consapevoli autonome, informate e generatrici di salute sia fisica che mentale a lungo termine.

Credo che i bambini imparino praticamente tutto dall'esempio che gli viene dato dai genitori e da chi si prende cura di loro. Se questo è un esempio di assenza e di carenza di contatto, di surrogati materni di ogni genere, di mancanza di disponibilità e di ascolto, di tempi prestabiliti da altri e non in armonia con la crescita del singolo bambino, questi saranno adulti con fratture relazionali tracciate nella loro memoria, difficili da scardinare (8).

È un aspetto spesso trascurato da parte degli psicologi, che dovrebbe stimolare studi a lungo termine sulle implicazioni relazionali delle modalità di allattamento e degli schemi educativi rigidi imposti ancora da un certo tipo di condizionamenti culturali e dai prodotti presenti sul mercato, soprattutto quello editoriale.

Ovviamente ciò non significa che i bambini non debbano avere regole e che i genitori siano al servizio di piccoli tiranni, significa soltanto che i tempi sono cambiati e dobbiamo allargare la nostra indagine, considerando l'allattamento da un punto di vista psicologico anche come un'esperienza relazionale di base, da cui i bambini imparano e verosimilmente baseranno i loro rapporti futuri, i loro pensieri e i loro pregiudizi a partire da ciò che hanno vissuto.

Alessandra Bortolott

Sui pensieri

Secondo Evagrio Pontico (+ 399) “la preghiera è un mettere da parte i pensieri”.

Mettere da parte: non un conflitto selvaggio, non una furiosa repressione, ma una qualche, sia pure costante, azione di distacco. Attraverso la ripetizione del Nome, siamo aiutati a “mettere da parte”, a lasciare andare le nostre futili e dannose immaginazioni e sostituire ad esse il pensiero di Gesù [...]

Quando per la prima volta iniziate la Preghiera di Gesù, non preoccupatevi troppo di eliminare pensieri e immagini mentali. Come abbiamo già detto, lasciate che vostra strategia sia positiva, non negativa. Richiamate alla mente non ciò che deve essere escluso ma ciò che deve essere presente. Non fermatevi sui vostri pensieri e su come eliminarli: pensate a Gesù.

Concentrate il vostro intero io, tutto il vostro ardore e devozione sulla persona del Salvatore; sentite la sua presenza; parlategli con amore. Se l’attenzione divaga, come indubbiamente accadrà, non scoraggiatevi: con gentilezza, senza esasperazione o rabbia interiore, riportatela indietro. Se essa vaga di nuovo, di nuovo riportatela indietro. Ritornate al centro, il centro vitale e personale che è Gesù Cristo.

Guardate all’invocazione, non tanto come preghiera vuota di pensieri, ma come preghiera piena dell’Amato. Lasciate che sia, nel senso più ricco della parola, una preghiera di affetto – sebbene non di eccitamento emotivo autoindotto. Poiché, mentre la Preghiera di Gesù è certamente molto più che una preghiera affettiva, nel senso tecnico occidentale, è con sentimento di amore che noi dobbiamo correttamente iniziare. Il nostro atteggiamento interiore, quando incominciamo l’invocazione, è quello di S. Riccardo di Chichester:

O mio misericordioso Redentore,
amico e fratello,
possa vederTi più chiaramente,
amarTi più teneramente,
e seguirTi più da vicino

Kallistos Ware, La potenza del nome, Il leone verde