martedì 28 luglio 2009

Un nuovo modo di salutare Maria


Cara Maria che Grazia ti tiene:
il Signore con te, benedetta fra le donne!
E benedetto il bambino che porti, Gesù.
Santa Maria, madre di Dio
Prega per noi viaggiatori
E accompagnaci all’arrivo
Amen


Il mio rapporto con Maria è stato discontinuo. Eppure il primo ricordo che ho nella mia vita è per lei. Stavo in una specie di culla, o comunque in un lettino con i bordi rialzati perché non cadessi, foderati morbidamente e ornati di nastri. Mia madre era in piedi lì a fianco, e diceva per me ad alta voce le preghiere della sera: “Salve Regina, madre di misericordia”. Ed io la vedevo, la Regina, lei era alta parecchi metri sopra di me e l’imbottitura del lettino, il vestito di mia madre, le tende alla finestra, si trasformavano nel suo vestito bellissimo che pendeva fino a me.
Più tardi mia madre mi raccontò che, prima che io nascessi, mi aveva raccomandato alla Madonna con una novena: dunque, prima che io potessi avere ricordi, ho avuto a che fare con lei. Poi per un lungo periodo l’ho trascurata. Da bambino e adolescente mi rapportavo a Gesù. Un giorno chiesi al mio vecchio parroco perché mai si desse tutta questa importanza a Maria. “Perché è la mamma”, mi rispose, ma mi sembrò una risposta sentimentale, mentre io ne cercavo una razionale. A vent’anni, dopo un ritiro in cui il predicatore aveva portato l’esempio di un santo che aveva fatto voto di offrire a Maria tutti i momenti della sua vita, il mio sentimento per lei si ravvivò per qualche tempo, poi tornai ad ignorarla.
Avevo già passato la cinquantina quando la riscoprii. Quando la meditazione profonda non mi riusciva, anzi persino mi annoiava, pensavo a lei come a un modello, cercavo di immaginare il suo livello di coscienza, la sua familiarità con il punto di vista divino. Quando l’amore per Dio sembrava una vuota parola, senza risonanza nella sfera della vitalità e del sentimento, pensavo alla sua felice condizione in cui l’amore di creatura, di figlia, di madre, di sposa erano una cosa sola.


Riformulare l’Ave Maria
Allora tentai di riformulare l’Ave Maria con parole mie. La prima parola, “ave”, non mi piaceva, perché non si usa più: perché non pregare con le parole di oggi? “Tutte le generazioni mi chiameranno beata” profetizza il Magnificat: anche il nostro tempo dunque è chiamato a lodarla con le proprie parole e la propria sensibilità.
Nella mia ricerca incontrai anche una ragazza che mi propose un saluto a Maria in romanesco: “Bella Marì, ‘mazza che grazia!” Ma il saluto dell’Angelo, che deve essere attuale, non può essere rozzo, deve conservare insieme delicatezza e potenza.
Il saluto riportato dal vangelo secondo Luca mi affascinava per il suono e per il significato: “Kaire Maria kekarikomene”.
Quel Kaire, la cui radice appartiene a una famiglia di vocaboli che significano grazia, carità, carisma, tempo sacro (kairòs), tradotto in latino con Ave, perde irreparabilmente. Certo, la parola AVE intrigò i Padri, appassionati di cabala enigmistica, per il fatto che è l’inversione del nome di EVA. “Sumens illud Ave Gabrielis ore, funda nos in pace, mutans Evae nomen” recita un antico inno liturgico (Accogliendo quell’Ave dalla bocca di Gabriele ci costituisci nella pace, mutando il nome di Eva). Anche il “gratia plena”, piena di grazia, è inadeguato di fronte a quella carica di cavalleria del “kekarikomene”.
È vero, neanche il testo greco conserva le vere parole dell’Angelo, a Nazareth si parlava aramaico. Oggi qualcuno vorrebbe interpretare le parole angeliche come locuzione interiore, immaginazione di Maria in preghiera. Come se il Verbo di Dio fatto vera carne non potesse essere annunciato da un messaggio fatto vera parola, vibrazione materiale di aria materiale. Però il suono di queste vere parole ci è sconosciuto, rimane un segreto tra Gabriele e Maria. Possiamo fare congetture sul saluto aramaico, ma niente di più. Il testo più vicino all’originale rimane quello greco di s. Luca, che con Maria aveva familiarità.

Kaire Maria, kekarikomene!
Come salutare oggi Maria? Si potrebbe conservare il suono antico dicendo in italiano “Cara Maria, che carico meni!”
Chi ha detto che una traduzione deve essere solo una traduzione del significato delle parole e non anche del loro suono, dell’esperienza interiore che esso produce? Anche come significato, il cara è perfetto per kaire; ma la seconda parte ha una venatura triste che non fa parte del momento “gaudioso” dell’annuncio, potrebbe andar bene per le avemarie dei misteri dolorosi.
Per molto tempo ho usato la formula:
Buon giorno Maria, grazia su grazia!
“Buon giorno” è un saluto ordinario, corrente, lo diciamo tutti. Ma lo diciamo superficialmente, senza pensare al suo significato. Detto a Maria, emerge subito come il buon giorno dell’umanità per eccellenza, il giorno in cui, in lei, l’umanità accolse la proposta divina dell’incarnazione.
“Grazia su grazia” tenta di ripetere, con la ripetizione della g e della r, il suono del kekarikomene. E nello stesso tempo tenta di fare eco all’ammirazione entusiasta espressa nel saluto angelico.
Oggi sono affascinato da una formula diversa, che cerca la sintesi fra il significato e la vibrazione della parola angelica:
“Cara Maria, che grazia ti tiene!”
Il cara significa sia “cara a noi” che “cara a Dio”, mentre la seconda parte del saluto sosta sulla meraviglia creata da Dio in Maria. E fa eco, con il ch, il gr e con la finale in ene al kekarikomene. Provate: queste parole trasportano il cuore di slancio verso Maria, come se esso si arrendesse al vento dello spirito. L’emozione accompagna la mente e anche il corpo gode della vibrazione creata dalle parole. La frase si può ripetere continuamente, come un mantra. Nella seconda parte della frase, l’Angelo ammira la grazia che “tiene” Maria. La Grazia la tiene nel senso di tenere in mano, possedere, ma anche come forza che tiene insieme la struttura completa della sua persona. Maria è costruita nella grazia fin da quando apparve nel pensiero di Dio, è la grazia che la costituisce quello che è. Non c’è affermazione dell’Io, non c’è senso di importanza personale, c’è solo grazia.
Quale sia questa grazia è spiegato da Gabriele con le parole successive: “Dominus tecum”. Come in latino, non c’è bisogno di verbi, non occorre dire “Il Signore è con te”. Sono parole esplicative del concetto di grazia. Il Signore con te: talmente con te che sta per cominciare a vivere in te come tuo figlio. All’Angelo si congiunge la Chiesa che a sua volta esclama “Benedetta fra le donne!”
Dobbiamo immaginare che l’Angelo, entrato nella dimensione umana per comunicare con questa Donna in cui ora è posto il destino dell’umanità intera, arrivi alla fisicità della parola essendo passato per la sfera emotiva. Il suo parlare non enuncia dottrine, ma si mantiene nello stato emotivo del saluto e dell’annuncio:
“Cara Maria, che grazia ti tiene: il Signore con te, benedetta fra le donne!”
Ripetere queste parole è un balsamo per noi. Inquinati da parole vuote, irritate, banali, volgari o addirittura cattive, sentiamo che la parola angelica passando attraverso la nostra bocca la pulisce e la rinnova. Le parole degli Angeli purificano l’etere in cui vengono pronunciate.

Benedetto il bambino che porti
“E benedetto il frutto del seno tuo, Gesù”.
“Zio – mi sussurra stupita la nipotina reduce da una lezione di educazione sessuale alle elementari – ma i bambini non nascono dal seno…”.
Allora qualcuno dice “del ventre”, ma ad altri il termine sembra troppo crudo. Dobbiamo chiamare un ginecologo per trovare le parole giuste per pregare? Eppure è così semplice! Quando incontriamo una donna incinta e parliamo del bambino che porta diciamo semplicemente “il tuo bambino”. Vogliamo essere sicuri di indicare una reale maternità fisica? Possiamo dire “il bambino che porti”:
“E benedetto il Bambino che porti: Gesù”

Peccatori-viaggiatori
L’incipit della seconda parte della preghiera resta intatto nella sua essenzialità:
“Santa Maria, madre di Dio”.
C’è un’ultima variante che, nella mia preghiera privata, porto al testo consueto. Preferisco dirla tutta d’un fiato, perché temo di averla fatta grossa:
“Prega per noi viaggiatori
e accompagnaci all’arrivo. Amen”
“Scusa, perché hai paura di riconoscerti peccatore?” mi chiede candidamente una suora Benedettina incontrata in un forum su internet.
Ecco, ho l’impressione che oggi, dopo un secolo di psicanalisi e di studi sul cervello, siamo così consapevoli di tanti condizionamenti alle nostre azioni da non essere spesso in grado di riconoscere un atto come “peccato”. E’ più facile riconoscere che la nostra condizione umana non è sana, che c’è una frattura profonda nella nostra coscienza, che spesso la valutazione di dove stanno il bene e il male è complicata e ci sembra che qualsiasi scelta abbia la sua parte di errore. Possiamo riconoscere che siamo in una condizione di peccato, ma ci viene difficile riconoscere quali siano i singoli peccati. Ecco, ci sentiamo pellegrini, gente in cammino verso qualcosa di meglio, forse la liberazione, forse l’illuminazione, verso la salvezza, come dice il linguaggio cristiano consueto.
“Adesso e nell’ora della nostra morte” non mi è mai piaciuto, fin da bambino. Mi pareva macchinoso e quasi ridicolo che la Madonna avesse l’elenco dell’ora della morte di ciascuno e dovesse ricordarsi di pregare per lui in quel momento. Preferisco pensare che noi ci apriamo alla sua aura (non dicevano vari santi che dobbiamo stare “sotto il manto” di Maria?) e desideriamo restare in questa sfera di energia, lungo il viaggio della vita, fino al suo termine.

Una preghiera da cui essere pregati
Una preghiera vecchia di secoli come l’Ave Maria, ripetuta per generazioni miliardi di volte, acquista una carica, una vibrazione, un’energia che la fanno risuonare direttamente nella nostra energia vitale. A volte è meglio soprassedere al bisogno di rinnovare il linguaggio per non perdere il valore di questa carica energetica legata alla devozione di tante generazioni. Però ci sono momenti in cui le parole ci appaiono usurate, obsolete, e allora la ricerca di una traduzione in un linguaggio personale può essere un aiuto a riscoprire appieno il contatto con il divino offerto dalla preghiera.
Una volta trovata la nostra Ave Maria privata, riformulata secondo il proprio gusto, diventa più facile farsene accompagnare giorno per giorno nei momenti più diversi. Non occorre pretendere di essere sempre concentrati sul significato di tutte le parole. “Il Rosario, più che una preghiera da pregare, è una preghiera da cui essere pregati” ha scritto recentemente il Maestro generale dei Domenicani. Facciamo scorrere le nostre avemarie private durante le mille attese della giornata, i momenti vuoti, i momenti difficili, i momenti in cui abbiamo bisogno di aiuto… L’aura di Maria è lì pronta ad avvolgerci come un mantello, e la vita interiore si incammina per sentieri pieni di scoperte.

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